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Prova Attoriale per un Telefono Maldoniano- quarta parte

Da Villa Telesio

Music For The Pain

leggi la prima parte di Moises Di Sante

leggi la seconda parte di Gaetano Veninata

leggi la terza parte di Moises Di Sante

Dall’alto dell’infinità degli occhi di Dio Maldonian sembrava un dedalo di strade confusamente distorte, dolore post-sovietico di una città stanca ed elettrificata. La pioggia martellava le anime insonni di uomini soli, ognuno nascosto nelle sue piccole intimità, case ammassate e residenze distaccate. Un uomo in canottiera e peli sulla schiena si stava cucinando un uovo al tegame, senza olio per la carenza dei derivati sintetici petrol-ramificati , aspettando forse di poter sognare di nuovo.

Impossibile poter ricevere un segnale decente nelle ore più tarde della notte ed allora la televisione friggeva di distorsioni e follie, impulsi nervosi e sensazioni fastidiose. Un piccolo cancro si stava formando nell’intestino del tegame, fuoco e vecchia ghisa improvvisavano la loro danza di morte senza la lubrificazione maldoniana. Gli orli dell’uovo erano neri e bruciati. L’uomo rimase un attimo a fissarlo disgustato, poi vi spense sopra una sigaretta pensando che forse quella notte avrebbe bevuto solamente birra. Le televisioni della città erano state progettate per sintonizzarsi unicamente su  canali prestabiliti di ogni “via stato”. La Città era divisa in settori ovviamente, ed ogni settore era un mondo a parte. Si potevano mangiare gatti ovunque, quello si, ma ogni strada aveva la sua ricetta, a volte gli occhi facevano la differenza. Come gli occhi di Dio, come gli occhi puntati sulla città dal Primo settore, come gli occhi di Mario…

Mario che era stato rapito, “prelevato”, Mario che aveva una brutta irritazione al prepuzio, Mario che aveva visto uomini anoressici cavalcare vecchie degeneri, Mario che aveva cenato con un prete Samoano, Fela Kuti il Presidente.

-   Ma adesso dove andrete? Voglio dire, sarete braccati?

-   Tu che ne dici figliolo? Aiutaci a mettere il Kimber 04 nel ripostiglio, per un po’ dovrebbe andare bene

-   Ho paura, ho paura cazzo! Che mi faranno? Mi uccideranno?

-   Noo macchè, verranno con tutta la banda qua fuori, una bella fanfara per il nostro Mariolino e poi giù fino al                         Primo distretto, tutti in alta uniforme aspettando che tu arrivi!

Mario aveva un padre che lui pensava scomparso da tempo, questo gli era stato rivelato poco tempo prima, un uomo di mezza età dal forte accento ungherese ma dal nome di origine greca, Tzozius, come il suo…

-   La puttana non ci vuole stare, vabbeh facciamo una cosa, cerco di trovare una sega o una roba simile e vediamo                 quello che si può fare, tu intanto accendimi una sigaretta che quando torno voglio fumare

-   Il ragazzo è spaventato Boogie non lo vedi?

-   Si, ma mica gli ho detto di andarmele a comprare al cimitero delle Nullità Tecnofutili, ho chiesto solo se                                gentilmente  me ne accende una…

 

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Le “visioni” che aveva avuto dal primo momento che era arrivato a Maldonian non facevano altro che confonderlo, disorientarlo, accumulandosi come pezzi di un puzzle nell’anticamera della sua memoria, pezzi di un gioco che non avrebbero mai combaciato.

 

-   Mario, figlio mio, non so cosa accadrà adesso, le nostre strade si stanno dividendo ancora, di nuovo, ma non temere, sento che le cose stanno cambiando qui a Maldonian, i droidi hanno frequenti  flussi di coscienza, devianze del sistema, sembra che la gente entri in stati di dormiveglia e le loro onde non vengano registrate, ho uno strano presentimento.

Ora si ritrovava con un biglietto del treno in mano, gli era stato dato da Boogie con la seguente indicazione: “ Fottitene di tutto ragazzo, vattene prima che tu venga riassorbito, lascia stare il vecchio Ungherese, è un brav’uomo ma è più rincoglionito di me, quindi scappa, se ci riesci, prendi il primo treno che vedi passare a Blumen e non preoccuparti dove porta, tanto da Maldonian non si va da nessuna parte”

Inutile descrivere i momenti successivi nei quali Mario con le lacrime agli occhi vide l’imponente impresario mettere a forza dentro un vecchio taxi giallo il barbiere-oculista, il naso dell’ebreo schiacciato al finestrino dell’auto mentre cercava di dirgli qualcosa. Come sempre Mario perse per un soffio l’attimo giusto,il momento che forse gli avrebbe cambiato la vita, il consiglio che l’avrebbe salvato. Quattro isolati dopo l’auto si distaccò dal Metro-suggeritore stradale e prese il volo ancorandosi alle linee periferiche della down-town. Il cielo grigio e pesante di pioggia inghiottì due uomini ed un droide nascosto nel sedile posteriore. Da lì in avanti tutto sarebbe precipitato, tutto sarebbe andato nel peggiore dei modi.

 

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Non era stato difficile salire “sul primo treno” che portava fuori Maldonian, era forse stata una coincidenza fortuita quella di trovarlo proprio in quel momento vista la bassa frequenza con cui i treni lasciavano la Città. Seduto sul vagone  passeggeri di seconda classe  Mario guardava con occhi tristi la Città allontanarsi e le imponenti strutture Nouveau della stazione Blumen farsi sempre più piccole. Sopra le sue gambe secche da tossico uno zaino con dentro poche cose, una bottiglia di acqua di mare salata e una pizza alla cipolla…ora non aveva fame…Maldonian…

Si stava quasi per addormentare quando gli si fece incontro un uomo anziano con la divisa della compagnia. Sembrava un cadavere rinsecchito tanto che i vestiti gli cadevano addosso. Un forte odore di disperazione e vecchiaia travolse il ragazzo.

-   Biglietto prego.

-   Ecco tenga, mi scusi, mi ero quasi addormentato.

-   Stava sognando? (gli occhi dell’anziano brillarono per un istante)

-   No no, le ho detto che appunto mi stavo per addo.. (colse solo allora il senso della domanda)

-   Credo che abbiamo un problema con il suo biglietto.

-   Quale problema? (lo sapevo che non sarei riuscito ad uscire da Maldonian), no perché mi è stato dato da un amico e sa, pensavo andasse bene

-   Dove è diretto?

-   Chi io? (ora cosa gli dico? Non so nemmeno che treno sia questo), ehm da uno zio, non molto lontano da qui

Il vecchio lo ascoltava senza guardarlo in viso, poi con un clanck obliterò il biglietto e lo restituì al ragazzo

-   Mi  ero sbagliato, è tutto a posto, le auguro buon viaggio e mi raccomando, non si affatichi, faccia sogni d’oro.

Si allontanò lentamente, aggiustandosi gli occhiali su un naso sporco e deforme, per oggi il suo lavoro era terminato, nessun altro passeggero per quella tratta, fin’ora.

Un vago senso d’inquietudine faceva fatica a lasciare il ragazzo, dal finestrino non poteva vedere un granché, la notte profonda senza luna e la pioggia creavano un manto nero impenetrabile. Poi all’improvviso la stanchezza lo colse senza preavviso e gli occhi gli si fecero sempre più pesanti stanchi..

 

Fela Kuti era seduto su un divano di pelle marrone logoro e sensuale, intorno a lui fogli di appunti e poesie. Un cane senza zampe era collegato ad un frullatore. Bende sporche fasciavano i suoi moncherini.  Donne nude pisciavano negli angoli della stanza. Un uomo antichissimo, bizantino si stava arricciando i boccoli della barba al centro della stanza, era vestito d’oro e di porpora, sembrava un santo nell’atto di diffondere il verbo di Dio. Fela Kuti rideva e lo prendeva a calci allungandosi sul divano ma senza alzarsi, il martire Romano indifferente arringava una folla inesistente. Mario era spettatore passivo del sogno di un santo. Mario stava sognando?

 

Si svegliò di soprassalto quando il treno fece un brusco sussulto, stava rallentando la sua velocità. Ora non era più da solo nel vagone di seconda classe, con lui c’era un bambino che portava degli occhiali giocattolo con gli occhi a molla. Vestiva una uniforme scolastica ed aveva nella tasca dei pantaloncini un vecchio giornale unto d’olio. Il ragazzino aveva l’aria arrogante e strafottente, un  monello scaturito dalla mente di Jean Vigo, lo fissava mentre gli occhi facevano su e giù danzando nelle loro molle, mariachi al guinzaglio.

 

-   Li ho comprati da un vecchio ebreo, ti piacciono?

Mario non rispose, si mise comodo nella poltroncina del treno e si umidificò le labbra

-   Ti ho chiesto se ti piacciono, quello sporco ebreo voleva regalarmeli ma io glieli ho pagati, mica voglio la carità

-   Pulisciti la bocca quando parli ragazzino, avresti dovuti accettarli.

-   Sì? Può darsi. Come ti chiami Mario?

-   Mario Tz, come scusa?

-   Ho chiesto come ti chiami?

-   Mi sembrava che avessi detto il mio nome.

-   Neanche ti conosco, tu sei tutto scemo!  Il ragazzino si alzò di scatto e si lanciò contro il finestrino, lo aprì con violenza e si mise ad urlare, folle, di rabbia, come in preda al delirio. Mario rimase pietrificato, fece per alzarsi ma il bambino cadde a terra colto da spasmi, i denti che battevano duri, quasi a spezzarsi, le mani contorte e violente da sindrome di Down, le gambe che scattavano nervose ed eccitate dalla malattia. Mario corse subito verso il corpicino epilettico e d’istinto gli infilò il giornale in bocca, sperando forse che non si spaccasse tutti i denti. Sentì il treno fermarsi, aprire le porte, la pioggia martellare il metallo delle scalette, esitare per poi ripartire. Urlò forte sperando che qualcuno lo sentisse ma niente, c’era solo lui e il bambino. Dopo circa due minuti le scariche si affievolirono fino a scomparire completamente. Mario aveva la pelle imperlata di sudore e ormoni acidi, le sue mani tremavano dal nervosismo. Il bambino era riverso a terra con gli occhi ruotati all’indietro, la morte l’aveva sfiorato.

 

Mario tolse il giornale dalla sua bocca per farlo respirare, si alzò barcollando ed andò a cercare il controllore in modo che chiamasse qualcuno, un medico, un prete, un poeta, chiunque avesse potuto fare qualcosa per il ragazzino. Mentre camminava per i vagoni deserti quasi con noncuranza aprì il giornale e vide la foto di un minareto, sembrava Maldonian.  Da una delle finestre superiori  penzolavano senza vita tre corpi impiccati, scimmie dal culo rosso giocavano con degli escrementi. Nessuna didascalia, nessun titolo a chiarirne il significato. Sotto, di lato, la pubblicità di una profetica macchina dimagrante, ingranaggi meccanici, stringhe in pelle e legacci in caucciù, un obeso in braghe e retina in testa sorrideva verso la camera. Il giornale riportava solamente la data di dopodomani.

Non trovando nessuno, dopo circa una mezz’ora di ricerche infruttuose l’esule inconscio decise di tornare al suo vagone, con sua estrema sorpresa il bambino era sparito. Beh- andò pensando Mario – almeno non è morto.

 

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La notte sembrava non finire più, sempre più lunga, lentamente sfibrante. Prese allora la decisione che sarebbe sceso alla prossima fermata, dovunque fosse stata. Non dovette aspettare molto, quando il treno perse di velocità. Prese il suo zaino, le sue paure e si mise impaziente ad aspettare di fronte alla porta del vagone. Come questa si aprì si trovò davanti, qualche gradino più in basso un uomo sulla quarantina con la faccia tutta rossa e sudata, vestiva un lungo paltò grigio rattoppato e bruciato da sigarette. L’uomo esitò un istante poi fissando Mario dritto negli occhi cominciò a schiaffeggiarsi il viso, violentemente, con l’aria di un pazzo. Ad ogni schiaffo gemeva e batteva un piede nell’asfalto, ogni schiaffo era sempre più forte, violento. Il viso sembrava un peperone tanto era rosso, i suoi occhi stralunati provocavano Mario ad ogni colpo. Dietro di lui, nel buio, si fecero avanti altri uomini, questa volta solamente in mutande, vecchi, flaccidi, obesi, anche loro dal viso paonazzo e imperlato di sudore. Come a fargli da contrappunto si misero a colpirsi il viso, menando forti  manrovesci, gemevano per la violenza dei colpi che ricevevano, ma non smettevano di fissare Mario Tzozius, il figlio dell’oculista barbiere, dell’ebreo ungherese dal cognome greco. L’esitazione e lo spavento fecero perdere al ragazzo l’opportunità di scendere a quella fermata, il treno chiuse le porte e riprese la sua corsa.

Ora Mario sembrava un animale in gabbia, nervoso, imprecante, prendeva a calci i sedili del treno, bestemmiava contro il Dio che l’aveva punito, ogni tanto apriva il finestrino del vagone nella speranza di vedere qualcosa che gli desse un indizio, una indicazione di dove fosse. Nell’oscurità della notte, nel buio dell’oblio finalmente riuscì a percepire delle luci, a lasciarsi alle spalle insensatezza del nulla, qualcosa di fronte a lui prendeva corpo. Eccitato si sporse sempre di più dal finestrino, strizzando gli occhi, mettendo a fuoco. L’enorme scritta in caratteri d’acciaio splendeva nel cielo, Blumen, Stazione Centrale di Maldonian.

Continua…


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