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Province, basta la parola

Creato il 05 luglio 2013 da Albertocapece

mktumb640aAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ci sono governi che mettono le mutande ai Tiziano, governi che condannano l’apologia ma lasciano il reato, governi che cancellano le parole ma perpetuano i problemi e governi che le tolgono dalla Costituzione, come atto anticipatore e dimostrativo per poi  stracciarla e con essa fare a brandelli quel poco che resta della democrazia.

Indispettito per  la decisione dea Corte Costituzionale, proprio come il socio di maggioranza che l’ha sempre indicata com madre di tutti i mali e di tutti gli ostacoli al dispiegarsi di libera iniziativa anche in campo legislativo, grazie a spericolati progetti personali e privati, il consiglio di amministrazione del Paese   ha dato via libera al disegno di legge costituzionale per l’abolizione delle province. “Auspico che il Parlamento approvi il più rapidamente possibile”, ha detto Enrico Letta al termine del consiglio dei ministri. Il governo intende “salvaguardare i lavoratori delle province e le loro funzioni”. Per questo, dice ancora Letta, “verranno prese altre misure per gestire la fase transitoria”. Ma intanto per favorire il processo non solo simbolico di rimozione, fa sparire la parola “province”   dalla Costituzione: “Il pronunciamento della Corte, che ha dichiarato illegittima la riforma, ha bloccato il processo di abolizione delle province”, ma “dato che manteniamo l’orientamento di dare seguito a quello che era contenuto nel discorso con cui il governo ha ottenuto la fiducia, dove era scritto chiaramente ‘abolizione delle province’, abbiamo ritenuto necessario intervenire al maggior livello possibile, abrogando la parola province da tutti gli articoli della Costituzione”, ha aggiunto Letta in conferenza stampa a Palazzo Chigi. “Ci sentiamo vincolati a quell’impegno”.

Ecco dopo il  governo degli annunci siamo al governo del reset, quello che elimina il simbolo per destituire il già fatto, la realtà, l’evento. Lo fanno per le province:  non l’hanno fatto con la parola lavoro, forse perché erano già molto avanti col processo di sgombero, come d’altra parte con la parola “diritti”.

Scarnificano la costituzione dei suoi capisaldi in modo che resti solo la sagoma impagliata e malferma dello Stato e della democrazia, come uno di quegli scheletri delle facoltà di medicina cui gli studenti danno nomignoli, mettono in testa un berretto, ripongono in un armadio, che tanto non ricorda più nemmeno lontanamente di essere quel che resta di un uomo.

Ci tengono proprio a chiudere in un armadio lo scheletro di quella che fu una democrazia, attraverso lo svuotamento della sua Carta. E dopo le acrobazie presidenzialiste, tanto per tenersi in esercizio e gettare un po’ di fumo negli occhi dell’antipolitica, si affaccendano  su un fronte solo simbolico, che ormai è risaputo che la cancellazione delle province non è certo profittevole né  redditizia. Per quanto riguarda le province i cui organi sono in scadenza ci saranno interventi ad hoc, che saranno varati “nelle prossime settimane”, dice Letta,  perché “i tempi di approvazione del ddl costituzionale non sono compatibili con le scadenze” delle amministrazioni. E dopo Letta si compiace Quagliariello nel suo duplice ruolo di ministro e di saggio caro al presidente,  “Oggi abbiamo messo le premesse”, poi “quando avremo le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale”, sul decreto varato dal governo Monti per l’accorpamento delle province, “il ministro Delrio proporrà un intervento attraverso una legge ordinaria, che dia applicazione al ddl costituzionale”. Secondo il ministro per le riforme costituzionali non si tratta né di “accanimento terapeutico” verso le province né di un “provvedimento ad hoc”, semplicemente di una legge per riorganizzare gli enti territoriali che potrà mettere fine ad un “policentrismo anarchico”.

Si si, basta anarchia, l’intento è quello, far regnare l’ordine sulle rovine. Una grande opera, inutile come sembrano essere ormai tutte le grandi opere pesanti e muscolari che non comportano benefici se non per i costruttori..o distruttori: perché è vero che smantellare un edificio rende, ma solo se non se ne deve tirar su un altro per metterci dentro uffici, negozi, appartamenti, gente che ci abita e ci lavora.
Per affrontare  problemi  di bilancio la soluzione non è chiamare le cose con un nome diverso, ma cambiarle. Se le Province possono  essere abolite,   vuol dire che quello che fanno è inutile. Ma se invece   è necessario istituire settori di Regioni e di Città metropolitane che facciano le stesse cose che prima facevano le Province, conservando lo stesso numero di dipendenti e di strutture, beh allora vuol dire che le loro competenze non sono inutili. Se il taglio significa far fuori qualche parassita d’alto bordo, di quelli che si sono comprati gratta evinci e leccalecca,   si tratta di un ben modesto risarcimento civile,   che placa il legittimo risentimento dei cittadini, ma  poco produttiva sul piano economico.

Che se invece a essere fatti  fuori i 60 mila dipendenti, oppure vengono investiti da una festosa ristrutturazione che cambia loro i connotati o li sposta nella scacchiera della mobilità precaria, allora c’è poco da gioire per una emergenza autunnale largamente anticipata dal trailer della marcia sulle rovine di Atene. E c’è poco da felicitarsi anche per il vuoto che si andrà a creare prima della frettolosa riedificazione dei poteri sostitutivi, in materie delicate e strategiche, che dovrebbero essere oggetto di oculata vigilanza, di puntigliosa sorveglianza per contrastare ingerenze di varie tipologie di criminalità, in settori che sarebbe preoccupante delegare mediante artificiale irrobustimento ai comuni e che non rientrano nelle competenze regionali.

Che se proprio si volesse invece punire per inutilità, inadeguatezza, inconcludenza, da smantellare c’è ben altro, le Regioni ad esempio, non solo per essere state, quelle si, fenici che hanno dimostrato un’indole invincibile a rigenerare  meccanismi di sottogoverno e corruzione, un’inclinazione alla superproduzione normativa che ha prodotto carichi burocratici e amministrativi perversi, moltiplicando adempimenti e rendendo largamente, colpevolmente e paradossalmente  inapplicabili regole e norme, in un’aberrante competizione e in una stolta concorrenza con lo Stato. Chiunque si sia occupato di pianificazione territoriale e di programmazione sa che  la dimensione della regione è  troppo ampia e quella comunale troppo stretta. E sa che il tentativo di trovare un sistema organizzativo attraverso i comprensori, è fallito. E che le province, istituite dall’ordinamento napoleonico proprio per risolvere quelli che nel XIX secolo erano i problemi d’area vasta (la riscossione dei tributi, la vigilanza contro l’ordine pubblico), tenevano conto  delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado, tanto che si erano tracciati i loro confini   sulla base di indicatori  territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato. Ragionevolmente dunque vennero recuperate per affidare loro quelle funzioni di pianificazione d’area vasta, in ragione della loro qualità  di istituzioni rappresentative elettive di primo grado,   elette direttamente dai cittadini, con funzioni valorizzate e potenziate   in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del selvatico, dalla salute alla scuola, dalla gestione dei rifiuti alla a competenze in materia di beni comuni, pensando a un contesto organizzativo efficiente: nuovi poteri alle province e istituzione città metropolitane, attraverso le principali riforme dei poteri elettivi sul territorio definiti dalla legge 142 del 1990, a conclusione di un dibattito durato vent’anni.

Tanti hanno sostenuto che l’Italia è una società senza Stato. Il problema è che è un posto senza Stato, ormai impoverito ed umiliato, senza società, che si sono erosi e spezzati vincoli di coesione, di solidarietà e di responsabilità e senza politica se i processi decisionali seguono onde personalistiche, regole ispirate a interessi privati.

 Così le province sono considerate istituzioni di secondo livello, dove collocare il personale politico in esubero, quello meno rampante e brillante, cui non  si voleva assegnare un ruolo prestigioso di sindaco o di legislatore regionale. E nella logica privatistica che ispira il ceto dirigente – potere e suoi luoghi sono affari loro – si possono sacrificare, gratificare revanscismi e populismi, abbattere un organismo eletto prima di programmare la sua sostituzione efficace,   cancellare una parola, in modo da promuovere la rimozione di molte altre, a cominciare dalla parola libertà.


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