Magazine Racconti

Provocazione in forma d’apologo 164

Da Fabry2010

Perdonate se non mi firmo. Sono un uomo di scienza, amo il mio lavoro e so farlo bene; e se quanto segue comparisse a mio nome sarei immediatamente allontanato dai miei incarichi come millantatore o folle, o l’uno e l’altro insieme: perché certe verità questo sistema non può reggerle, e se ne difende con qualsiasi mezzo.
Qualche mese fa mi trovavo in casa d’amici per una veglia funebre. Veramente già poco dopo le dieci a vegliare ero solo; l’agonia della vecchia signora era stata lunga e straziante, lasciando i parenti, caduta la tensione al momento dell’esito, del tutto svuotati di forze. Costoro dunque dormivano profondamente, buttati qua e là su divani e poltrone; io solo vegliavo, sfogliando un album di fotografie che racchiudeva la vita della defunta, una donna bisbetica e triste. A un tratto avvertii dalla stanza dove non doveva trovarsi nessuno, se non la salma composta sul letto, provenire dei lievi rumori; pensai d’essermi sbagliato, ma i rumori si ripeterono, questa volta più forti. Mi guardai intorno; il sonno dei parenti sembrava essersi fatto ancora più fondo. Allora mi decisi: mi alzai, andai verso quella stanza, aprii la porta ed entrai.
Sono un uomo di scienza, l’ho detto, non incline a credere alle fole, ma neppure a cacciare la testa sotto la sabbia. Inoltre la mia formazione, la mia scienza medesima, come quelle di tanti che tacciono e continueranno a tacere, sono innervate di esperienze e di studi a dir poco in conflitto con quanto professo alla luce del sole. Perciò non mi stupii né mi terrorizzai quando, entrato nella stanza illuminata da un abat-jour, vidi la defunta seduta sul letto, già con i piedi a terra come per alzarsi, con il viso (viso su cui come prima spiccavano sintomatiche macchie) rivolto verso di me e gli occhi aperti. Mi avvicinai e quasi tranquillo le presi una mano (era fredda) e le tastai il polso, che inequivocabilmente non aveva alcun battito. Per definitiva conferma di ciò che avevo intuito le avvicinai l’altra mano al volto, tra bocca e naso, e constatai che da quel corpo non usciva alito. A quel punto in modo delicato ma fermo la riportai sul letto e ve la ricomposi senza incontrare alcuna resistenza; quindi, dopo qualche istante di osservazione, tornai di là, dove i suoi parenti buttati su divani e poltrone dormivano di un sonno che sembrava più fondo della morte.
Mi risedetti al tavolo e mi costrinsi a riprendere l’album, a voltarne lentamente le pagine. Ero giunto a un foglio sul quale era stato incollato una specie di piccolo bouquet di viole secche quando dall’altra stanza vennero rumori forti e in rapida successione. Ancora mi guardai intorno, e ancora vidi che il sonno dei presenti non ne era stato minimamente turbato. Fu quasi con rassegnazione, pertanto, che mi alzai per riaffrontare quello che di certo mi attendeva nella stanza della defunta. Infatti, come entrai, vidi costei in piedi davanti al secretaire nell’atto di aprirne un cassetto. Mi avvicinai, la presi per i polsi (non avevano battito) costringendola a girarsi verso di me. I nostri occhi si fissarono, anche se lei pareva non avere sguardo. Nondimeno, senza alzare la voce ma scandendo le parole, pronunciai: “Adesso basta. Lasciala andare”, dopo di che la guidai verso il letto dove di nuovo la misi e la composi non incontrando resistenza alcuna.
Il fenomeno non si ripeté, posso affermarlo con sicurezza dal momento che comprensibilmente non riuscii a chiudere occhio. Di buon mattino i parenti si svegliarono scusandosi di essersi lasciati prendere da un simile sonno, ed io, dopo un saluto alla salma che giaceva composta, presi congedo e me ne tornai a casa, per una doccia e un paio d’ore se non di sonno almeno di riposo.
Uscendo dal bagno in accappatoio attraversai la biblioteca, dove sulla scrivania si trovavano delle dispense che stavo studiando. Per abitudine passando le aprii al segno, tenuto dal mio vecchio segnalibro, una viola di latta dipinta; e sempre per abitudine lessi la prima parola in alto a sinistra. La parola quella volta era “grazie”.
Mi coricai, addormentandomi subito; al mio risveglio mezzogiorno era trascorso da un pezzo.



Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Magazine