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Provocazione in forma d’apologo 171

Creato il 18 agosto 2010 da Fabry2010

Erano tre mesi che piangeva inconsolabile e adesso, esattamente come nel mito mille volte letto e contemplato in mille versioni e raffigurazioni diverse, anche il consulente editoriale Orfeo era disceso nell’Ade a recuperare la sua compagna Euridice, già dirigente didattico, morta tre mesi addietro per la puntura di una zecca.
La scena si era svolta per filo e per segno come letta, veduta e immaginata tante volte, fino all’inizio del ritorno verso la luce, lui in testa, previa raccomandazione di non voltarsi indietro fino alla fine del viaggio.
Memore di quanto accaduto al suo predecessore tanti (quanti?) secoli prima, Orfeo aveva obbedito al comando alla lettera e si era guardato bene dal guardarsi indietro, quantunque il lieve scalpiccio iniziale si fosse mutato ben presto in un rumore sempre più forte, che nei pressi della superficie si era fatto quasi scroscio di cascata, fragore di tuono.
Di nuovo all’aperto Orfeo si era voltato e dapprima aveva visto con trepida gioia la sua Euridice, comprensibilmente anche più pallida del solito; ma alle spalle di lei subito dopo aveva scorto una folla vociante e minacciosa – o almeno come tale l’aveva immediatamente percepita.
Dietro a Euridice infatti si trovavano innanzitutto la terribile madre, vale a dire la semi-suocera; e poi parenti antipatici, amici invadenti, colleghi e vicini impossibili, vecchi amori di lei contro i quali il medesimo Orfeo aveva dovuto lottare non poco; e persino un intero serraglio, o meglio un’intera clinica veterinaria, dalla lince non vedente all’aquila senz’ali. Dietro a quelli, infine, una moltitudine di semisconosciuti, o sconosciuti affatto, che non avendo incontrato che una volta e magari di lontano Euridice, col suo gelo e il suo fuoco, o avendone anche solo sentito parlare, vedendola incamminarsi per tornare nel mondo, proprio non avevano potuto trattenersi dal seguirla. E non che tutti costoro fossero passati per la morte; il Nostro si era accorto con quasi più meraviglia che dispetto che gli imbucati erano moltissimi, gente ben viva che, venutane a conoscenza non si sa come, si era affrettata a coglier l’occasione per, come dire, regolare la sua partita in anticipo. Ovvio che Orfeo percepisse in quella marea montante una seria minaccia. Perché una cosa era chiara, e, nel muto roccioso pallore di Euridice, Orfeo ne stava trovando di momento in momento costernata conferma: tutti costoro, come per una contaminazione velenosa e sbilenca del mito greco con la storia di Grusenka e della cipolla, per quanto in modo indiretto gli erano indubitabilmente cascati sulle braccia. Tutti costoro, ombre e non ombre, senza la minima ombra di dubbio.
In quel preciso momento l’uomo si sentì perduto; già si vedeva costretto a lasciare le sue amate ma poco retribuite imprese editoriali di nicchia per l’azienda di pubblicità che a suon di denaro lo reclamava come copy; e soprattutto costretto a serate e finesettimana da trascorrere con assortite rappresentanze di costoro, per le quali il pallore di Euridice avrebbe addirittura preso un po’ di colore.
Come già detto, l’uomo si sentì perduto, e incominciò a sudare copiosamente; tanto – tanto che si svegliò con il pigiama madido.
Orfeo aveva sempre schifato deiezioni e umori; passi ancora per il pianto, ma un simile sudore… puah, insopportabile. Cosicché si levò di scatto, si liberò del pigiama e ne fece una pallottola che scagliò in lavatrice e s’infilò senz’altro nella doccia. Quasi subito, dopo tanto tempo, sotto il getto lustrale gli salì alle labbra e risuonò per la stanza l’aria che avevano tanto amato entrambi, tante volte cantandola insieme:
“Che farò senza Euridice
Dove andrò senza il mio bene”.
L’aria che lui inconsolabilmente avrebbe continuato a cantare da solo, anche per lei; per lei che era morta, e che nulla (nulla!) avrebbe potuto mai riportare alla vita.



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