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Provocazione in forma d’apologo 185

Creato il 25 novembre 2010 da Fabry2010

Mi capita ormai raramente di riuscire a sedermi a questa scrivania solenne e un po’ buffa, e di potervi ancora sfogliare annotando qualche vecchio volume già letto innumerevoli volte.
Dalla frizione di tali note col testo ispiratore e fra loro si affacciano a tratti versi curiosi, cui non do in genere seguito anche per scarso coraggio.
Oggi però mi sento più incosciente del solito, sotto la dettatura procedo benché non ci capisca una parola: letteralmente, poiché le parole (le stringhe di caratteri alfabetici separate da spazi) che mi escono dalla penna non appartengono ad alcuna lingua a me nota.
In breve ho finito, il parto d’origine oscura formalmente è un sonetto. Mi alzo e vado alla finestra, da cui entra una luce incredibile e si vedono i più bei panorami del mondo; ma solo uno spicchio, la finestra è senza maniglia, non può essere aperta. “La cosa è nata così”, mi disse il padrone di casa quando me ne lamentai, “prendere o lasciare”; ed io presi.
Torno a sedermi, comincio a leggere a bassissima voce il sonetto che ho scritto e di cui non capisco una parola. Come termino di pronunciare il primo verso accadono due fatti. L’intero testo mi diventa di colpo perfettamente chiaro, e nello stesso momento dalla finestra si ode provenire uno scricchio: alzo gli occhi dal foglio appena in tempo per vedere il pesante vetro cadere in minuti frantumi lasciando libero lo specchio della finestra, da cui subito entra un’aria mite e fragrante.
Nuovamente mi avvicino e per la prima volta posso sporgermi, guardare di sotto. Che strano, abito al terzo piano ma di qua il suolo appare distante come si fosse almeno al trentesimo.
Allora, quasi fosse la cosa più naturale in un frangente del genere, salto sul davanzale, scavalco l’intelaiatura della finestra e vado dritto dritto a farmi quattro passi in quel bel panorama, che per l’occasione è mutato di nuovo.
Trascorso un certo lasso di tempo (mezz’ora? di più, di meno?) rientro nella stanza, siedo alla scrivania, mi metto davanti un foglio pulito: vorrei confidare a me stesso e alla carta quello che ho appena veduto.
Ma sento che non potrei già più dirlo che nella lingua del sonetto, e che anzi queste che sto scrivendo sono forse le ultime parole che potrò mai più scrivere in una lingua nota a chi non ha sfondato la finestra e fatto quattro passi nella realtà che sta fuori.



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