Arrivo nel solito caos e la trovo nell’angolo più buio, lei mezza cieca, che con certe forbicine aguzze traffica su un indumento.
“MA CHE COSA FAI?”
Tira su la testa con calma e mi guarda da sopra le lenti: “Ti ho comperato per pochi euro questa maglia al mercato. Bellissima, guarda, senti che lana. Chissà come è finita su quel banco. Aveva solo uno stemmino volgare, dei fili che pendevano qua e là. Ancora una mezz’ora e sarà perfetta.”
Taccio. Tace anche lei e torna al suo lavoro. Ma, sentendo il mio sguardo che non la lascia, aggiunge: “Non sei tu a dir sempre che l’imperatore non deve pensare ad altro che a far svolgere i riti, con i gesti corretti e con lo sguardo rivolto nella giusta direzione?”.
Continuo a tacere e arrossisco: di rabbia e di vergogna. Eggià, imperatori ormai lo siamo tutti, almeno un po’. Ed eccoci tutti serviti: io coi miei diagrammi di Gantt, Alessandro col suo nodo di Gordio, Ercole con le sue stalle d’Augìa; e persino il Padreterno, che d’ora in ora minaccia di fare un’iradiddio. Minaccia, ve’. Anche Lui si sente sul collo la benevolentissima ironia di lei, e trattiene la mano.