Sbagliai, pagai e mi portai a casa la mia carrettata di cocci, che collocai nello spazio a me riservato nel seminterrato della casa in cui abito. Si badi bene: cocci non inquinanti, nemmeno brutti a vedersi, accatastati in pile ordinate. E miei.
Un bel giorno mi accorsi che le pile scendevano, e stetti all’occhio. Finché sorpresi un vicino che faceva la spesa senza passare alla cassa. Certo del mio buon diritto gli chiesi conto, ma quello cadde dalle nuvole. Disse: “Un coccio è un coccio, testa di coccio che non sei altro. Ma c’è coccio e coccio, e alcuni di questi mi piacciono, e mi servo senza permesso. Ci mancherebbe. Hai sbagliato e hai pagato? Difficile da capire ma ben fatto, se così ti è garbato. Però lo sbaglio più grande è stato pagare, e soprattutto pagare anche per i cocci. Le cose non vanno più in questo modo. Rassegnati e guardati intorno, se vuoi puoi fare altrettanto”.
Quel discorsetto mi lasciò senza parole, piantato lì nella penombra a pensare. E ancora ci penso, adesso che di cocci non ce n’è più da un pezzo.