Pubblicato da robertorossitesta su aprile 3, 2012
Prossimo alla laurea ottenni a fatica una tesi su Vubì e sul suo unico libro edito, e dopo averla scritta andai a trovarlo nella casa di riposo dove stava passando i suoi ultimi giorni in solitudine.
Incontrarlo fu ancora più difficile che farmi assegnare la tesi su di lui. Quando alla fine ci riuscii, dopo brevi convenevoli che accolse impassibile gliela misi in mano, e lui cominciò a scorrerla con la fronte aggrottata ma che man mano nella veloce lettura andò spianandosi.
Al termine, con un mezzo sorriso mi disse di aprire l’armadietto alle sue spalle e di prendere la cartellina viola che vi si trovava. “Contiene un acquerello che comprai il giorno in cui iniziai a scrivere il mio unico libro pubblicato. Prendila,
l’acquerello è tuo. Ma fanne buon uso. E soprattutto non farti più vedere qui intorno.” E mi congedò bruscamente.
Resistetti alla curiosità di guardare l’acquerello finché non fui di nuovo a casa, chiuso nella mia camera.
Mi trovai di fronte alla lotta di un rapace che stava sopraffacendo un rettile in uno scorcio di brughiera sovrastata da un cielo violetto. Rimasi all’istante quasi soffocato dal soffio di violenza che emanava dall’immagine, esaltato dalla bellezza delle forme e dei colori: i grigi, gli ocra, i verdi, i viola…
Ma subito dopo (o era trascorso del tempo?) mi sorpresi a comparare le penne del rapace con le scaglie del rettile: la disposizione, le gradazioni cromatiche…
Con grave sforzo riuscii a distogliermene, e compresi sia la generosità del dono del vecchio che, soprattutto, della sua esortazione alla prudenza.
Riposi l’acquerello nella sua cartellina e lo misi sotto chiave in un posto sicuro, da cui ancora oggi lo traggo per qualche minuto ad ogni anniversario della morte di quel grande. Ancora oggi, che occupo la cattedra che sarebbe stata sua se non avesse voluto guardare quell’immagine troppo a lungo e troppo a fondo, scrivendone poi tutto lo scrivibile – ed oltre – in una volta sola.