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Pseudo

Da Danielevecchiotti @danivecchiotti

PseudoC’è una grande confusione sul concetto di scrittore, di scrittura. Grazie al self publishing, al favoloso mondo a costo zero dell’e-book, e al comportamento delle maggiori case editrici che si adattano alle leggi cangianti del mercato preoccupandosi solo di riassortire il catalogo il più velocemente possibile per moltiplicare l’offerta, ormai un romanzo edito lo ha più o meno chiunque. E sono tutti romanzi “con un ritmo serrato”, e “la pagina che si divora”, pieni di “sferzante ironia” eppure “toccanti e capaci di commuovere”.
A suon di scoprirci tutti capaci di scrivere un libro, è andata a finire che il confine tra la scrittura e il narcisismo esibizionistico con manie di protagonismo si è via via assottigliato fino a scomparire del tutto. Pubblicare un romanzo significa ormai soprattutto cercare anche noi il nostro quarto d’ora di disperata popolarità, gratificare l’io con le cinque stellette di critica dateci dagli amici su Goodreads, tormentare i contatti di Facebook con inutili inviti a presentazioni, e mandare email a caso raccomandando di non perdersi la nostra ultima geniale opera.
Va a finire che, presi dall’ansia di condividere con il cosmo il nostro momento di gratificante onanismo narrativo, ci dimentichiamo di un ingrediente-base diventato dettaglio: il senso dello scrivere.

Scrivere non è quella cosa che si fa per raccogliere applausi e consensi unanimi. Scrivere dovrebbe, al contrario, scatenare scompiglio, fastidio magari, shock e, con essi, una qualche forma di evoluzione che sempre si conquista con la spaccatura dello status quo, non certo con l’allineamento ai parametri condivisi. Scrivere dovrebbe essere un modo per mettere a nudo quelle parti di noi che mai scopriremmo in pubblico, le nostre miserie di esseri umani, le nostre carenze o abiezioni. Scrivere dovrebbe portarci più a provare vergogna e imbarazzo che non orgoglio, per l’immagine che stiamo dando di noi. Altrimenti è solo il consueto teatrino della vita, quello che ognuno di noi mette già in scena da mattina a sera per provare a imbellettarsi le brutture. E allora, se tanto è sempre il solito show, per quale motivo dagli anche forma per iscritto?

Io, dovessi dare un consiglio allo scrittore che è in me, gli suggerirei di liberarsi dall’inganno della visibilità concessa a tutti, e di lavorare in silenzio, nell’oscurità, lontano dalla ricerca di qualsiasi consenso o approvazione. E’ quando pensi che nessuno ti veda che dai libero sfogo alla tua essenza più vera.
Lo scrittore che davvero aspiri ad essere tale, pubblichi dunque tutti i romanzi che vuole, sbatta pure su Ilmiolibro, Amazon e Le libellule Mondadori tutti i capitoli che non riesce a trattenersi dal voler regalare al mondo, ma lo faccia usando un nom de plum che gli consenta, dietro l’anonimato di una maschera, di essere davvero se stesso e, soprattutto, di non romanzarsi l’ego solo per apparire più piacevole su Facebook.
Diventi, insomma, uno scrittore con pseudo anziché uno pseudoscrittore.

Io credo che, sgravata degli aspetti narcisistici tipici dell’era del talent-show, quella della scrittura smetterebbe di essere una prospettiva attraente per almeno l’80% di coloro che oggi scrivono e pubblicano. Io credo che, liberata del sovraffollamento di gente in cerca di un quarto d’ora di gloria, anche l’esperienza dei lettori sarebbe assai più arricchente.


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