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Psicoterapia: “Il buco nero della vergogna”

Da Renzo Zambello

  

Psicoterapia: “Il buco nero della vergogna”
 Gianni, un ingegnere di trenta anni, chiede una psicoterapia per il profondo disagio che pervade la sua vita: si vergogna di se stesso e soprattutto della sua mascolinità, è convinto che “nessuna ragazza carina”, per citare una sua tipica espressione, potrà mai desiderarlo come maschio.

Questa paura è una vera ossessione che invade i pensieri, le fantasie e condiziona gli incontri con le donne e anche con gli uomini che sono sentiti come rivali pericolosi e potenti, certamente più virili e di successo di lui che si considera brutto, inadeguato, una sorta di “calimero-piccolo-e-nero”. E’ un uomo dal fisico possente, ma prova vergogna per il suo corpo che sente danneggiato ferito, repellente; è convinto che gli altri possano riconoscere con la vista le ferite emotive proiettate nelle mostruosità corporee.

E’ immerso nei paradossi: vorrebbe essere riconosciuto ma anche restare invisibile; si sente a disagio quando incontra il temibile sguardo che potrebbe smascherarlo e colpirlo come un fendente nella più segreta intimità, ma allo stesso tempo desidera essere accolto per non soffrire una cocente ed ingiusta esclusione.

L’emozione della vergogna in Gianni spesso si trasforma in rabbia, vissuti paranoici, fantasie ipocondriache, tutte difese per allontanare il momento dell’incontro con l’altro che può cogliere e smascherare la sua intimità danneggiata. Non ha il senso del tempo ogni attimo assume una dimensione intollerabile ed eterna, non ricorda le esperienze positive che sembrano perdersi come l’acqua in un colino. Il suo umore oscilla tra la rabbia che lo spinge a dare pugni nel muro, ad un senso di profonda prostrazione e passività.

Quando è relativamente sereno, non troppo oppresso dai suoi conflitti, dimostra intelligenza e competenza, qualità che gli permettono di realizzare successi lavorativi e sociali e anche di concretizzare e vivere relazioni con le ragazze, ma questi eventi positivi non lo rassicurano, hanno anzi l’effetto paradossale di aumentare i suoi timori ed attivare comportamenti di fuga e di evitamento.

Un altro suo paradosso è quello di svalutare e togliere valore ad ogni esperienza soprattutto di natura affettiva e sessuale, poiché non si riconosce qualità apprezzabili, svaluta e denigra le donne che mostrano interesse ed attrazione verso di lui; trova in loro difetti e limiti fisici o psicologici, in sostanza è convinto che nessun altro uomo potrebbe desiderare le ragazze che lo scelgono.

Una passione di Gianni è la fotografia, stare nascosto dietro l’obiettivo lo fa sentire autorizzato ad osservare le persone e le situazioni dimostrando notevole sensibilità ed empatia, capacità che gli difettano nelle relazioni interpersonali, è troppo impegnato nelle sue fantasie e autosvalutazioni per accorgersi dell’altro.

Come paziente, Gianni sembra completamente allo scuro dei suoi sentimenti ed emozioni, manca della capacità di sognare è drammaticamente ancorato ad una sorta di iper-realtà piatta senza ombre o prospettiva, immutabile e ripetitiva. Come scrive lo psicoanalista Ogden (2008) “una persona incapace di imparare dall’esperienza e di farne uso, è imprigionata in una condizione infernale di un mondo infinito ed immutevole”.

Molto lentamente, nel corso della psicoterapia psicodinamica, Gianni arriva a riconoscere ed ammettere la sua paura per le donne, è questo terrore soprattutto di fronte ad una ragazza seducente, che lo porta ad assumere atteggiamenti di ritiro: non sono le donne a sfuggirlo, ma è lui che per la paura dell’incontro sabota la possibilità di successo. La sessualità è il campo di battaglia di Gianni, ma il suo problema non è il sesso ma piuttosto un grave difetto d’identità.

E’ profonda e ripetuta la traumatica squalifica narcisistica che il piccolo Gianni.

Ha subito nell’infanzia nella relazione con una madre troppo occupata a curare un marito a lungo e gravemente depresso; tanto che oggi Gianni, da adulto mantiene un copione d’esclusione e d’isolamento affettivo. E’ come se il ripetersi di traumi cumulativi piuttosto che acuti (M. Khan), abbia congelato l’emotività e le capacità affettive, il tempo si è fermato sulla rappresentazione di un’unica scena, esattamente quella in cui è mancato il riconoscimento materno, la sua frase tipica ”nessuna ragazza carina mi vorrà mai” si può tradurre in: “come mia madre non mi ha amato, così nessuna altra donna di valore potrà mai amarmi”.

La spiegazione del disinvestimento materno è cercata nella propria inadeguatezza: “Mia madre nel passato, come le donne che incontro oggi, non mi desiderano perché sono piccolo e repellente nel confronto con altri uomini, così come durante l’infanzia non sono stato all’altezza di mio padre “.

La cocente vergogna provata da Gianni, sembra essere la conseguenza di una prolungata disconferma narcisistica che ha minato e reso fragile quella che lo psicanalista Racamier definisce “l’Idea dell’Io”, eredità del “lutto originario”, ossia il processo psichico fondamentale per il quale l’Io rinuncia al possesso totale dell’oggetto, compie il lutto di un’unione narcisistica assoluta, riconosce le sue origini. “L’incestualità” una condizione molto diffusa nelle famiglie, è un clima, un registro della vita interiore, una condizione d’incesto morale, in cui il genitore, spesso la madre, fa una proiezione narcisistica invasiva sul bambino che si trasforma in “oggetto incestuale”, oggetto-feticcio a cui è proibito avere desideri propri e soprattutto gli è negato il valore narcisistico. Si tratta di una squalifica, di un discredito portato al valore intrinseco delle capacità e delle realizzazioni di un individuo, una profonda ferita narcisistica che fa vivere nella paura e nella vergogna.

L’incestato è squalificato nella sua elaborazione fantasmatica personale, nella capacità di desiderio, nell’integrità dell’Io, nel narcisismo, nel corpo e nella psiche.

L’oggetto incestuato, incarna un ideale assoluto, concentra tutti i poteri è investito come un idolo che illumina l’idolatra ma allo stesso tempo e questo è il paradosso, è deprivato d’ogni valore e riconoscimento personale. L’associazione di Racamier della squalifica narcisistica all’emozione della vergogna, propone una spiegazione della vergogna patologica alla luce della perversione narcisistica sia dal versante di chi subisce la squalifica, che da quello che la infligge.

Il portatore di vergogna, non potrà mai essere all’altezza della sua funzione d’idolo in quando n’è solo un simulacro, uno specchio riflettente del narcisismo altrui. Non ha possibilità di successo, quando scopre l’imbroglio si copre di vergogna e si riempie di rabbia, non potrà mai avvicinarsi all’Ideale dell’Io proiettato dai genitori, inoltre si sentirà in colpa per il suo fallimento.

Gianni si vergogna di non essere stato amato, è convinto che questo derivi da suoi presunti gravissimi difetti. Il distorto ed intermittente investimento narcisistico materno determinato anche da aventi e necessità esterne, hanno causato un’importante deprivazione narcisistica: gli sono mancate la giusta tenerezza e la coerenza materna, ingredienti necessari allo sviluppo della sicurezza e fiducia di base. Egli si sente inadeguato rispetto ad un Ideale dell’Io irraggiungibile che attribuisce in maniera irreale, agli altri uomini.

Quella che è danneggiata è la sua identità, l’Idea dell’Io, egli convive con una sorta di buco nero che assorbe le sue migliori energie e che lo rende avido e insoddisfatto, è proprio l’elaborazione del lutto originario che gli può consentire di tollerare la perdita dell’oggetto senza rischiare di perdere anche il senso e la continuità del Sè (Racalbuto).

Il paziente Gianni ha ripetuto a lungo il tormentone: “nessuna-ragazza-carina-mi-vorrà-mai” accompagnato da un quasi nulla disponibilità ad ascoltare parole nuove, questo ha richiesto alla terapeuta una paziente e fiduciosa accoglienza e discernimento d’ogni sfumatura e diversità nell’apparente inscalfibile ripetizione dei contenuti. Lentamente, l’attenzione è stata spostata alla storia, ai vissuti, ai desideri, ai comportamenti ambivalenti del paziente.

La scoperta dell’esistenza dell’altro così come l’intuizione di uno spazio interiore, sono emerse da una sorta di nebbia fatta d’angoscia e paura. Progressivamente sono migliorate le relazioni interpersonali, ma soprattutto la generica categoria “donne”, si è differenziata per nome, identità, caratteristiche personali e psicologiche, modalità d’incontro, motivazioni ecc.

In questa fase della psicoterapia, la sessualità inizialmente solo immaginata, ha assunto forme e modalità soddisfacenti anche se non ancora pienamente integrate: il paziente riesce ad avere una buona relazione affettiva e sessuale con la sua attuale fidanzata ma seguita a sentirsi frustrato per non aver realizzato il perfetto incontro con “una-vera-ragazza-carina”.

In realtà quello che sta ancora maturando è un’immagine di sé sufficientemente integrata e adulta per poter comprendere la possibilità di tollerare il senso del limite.

Persone come Gianni sono sofferenti per essere stati sottoposti ad un dominio ed essere state asservite al narcisismo altrui, hanno provato angoscia, depressione, per questo è fondamentale ricostruire e scoprire se stai attraverso una rigenerazione narcisistica, il supporto di un involucro qualificante.

Il processo terapeutico, spesso lungo e complesso, secondo Racamier, deve lavorare attorno al nocciolo della riqualificazione della persona, rendere possibile i piaceri libidici e dell’Io, elaborare la vergogna mai digerita, il lutto non fatto per rendere possibile la condizione di sentirsi solo un uomo, ma un uomo tra gli uomini.

Bibliografia

Ogden T. H. L’arte della psicoanalisi. Raffaello Cortina Editore, 2008.

Khan M.(1983)I sé nascosti. Torino: Boringhieri, 1987.

Racamier P.C. Il genio delle origini. Milano: Raffaello Cortina,1993.

Racamier P.C. (1995).Incesto e incestuale. Milano: Franco Angeli, 2003.

Racalbuto A. Tra il fare e il dire. Raffaello Cortina Editore, 1994

Dott.ssa Maria Grazia Antinori

da: http://benessere.guidone.it  

 

Commento del Dott. Zambello

La dottoressa Antinori richiama uno dei temi più interessanti e anche difficili della professione dello psicoterapeuta. Riporto,  perché condivido totalmente,  cosa diceva il Prof. Eugenio Gaburri,  Medico Psicoanalista Didatta della SPI: “La questione delle aree di “indifferenziazione” della personalità pone molti problemi, clinici e teorici che sono stati scarsamente accennati da Freud e, in seguito, hanno preso ramificazioni diverse nella riflessione psicoanalitica. Tendenzialmente si è orientati a pensare che indifferenziato sia il tempo che precede la nascita psichica dove non sono ancora definiti i confini Io/Non Io, dove il rapporto tra madre e neonato si colloca in un area fusionale, in una condizione preambivalente etc. Problemi particolari sono nati in psicoanalisi quando si è presentata la questione dell’autismo e delle parti autistiche della personalità (Mahler, Tustin, Gaddini etc.).
Le aree di indifferenziazione hanno a che fare con parti della personalità individuale e con aspetti arcaici del sé, delle difese dell’Io, dell’apparato per pensare e altro ancora. Inevitabilmente le aree di indifferenziazione sono connesse con la problematica intersezione sia transgenerazionale sia intergenerazionale tra l’identità individuale e l’identità (mentalità) del gruppo di appartenenza: ciò conferisce al rapporto di cura psicoanalitica specifiche caratteristiche . Di queste aree si sono occupati molti AA i cui pareri convergono anche se partono da matrici teoriche diverse: Bleger in Argentina (il nucleo ambiguo), Lowenstein negli Stati Uniti (la densità primaria), Bion in Inghilterra (gli elementi beta) etc.
Nella clinica, situazioni di “non contatto” che appaiono come aree cieche, di diniego, o, addirittura aree a cavallo tra biologico e psicologico, possono avere a che fare con l’indifferenziato (le aree autistiche delle persone nevrotiche per es.); In questi casi non si ha tanto a che fare con “difese” dell’Io o con conflitti rimossi, ma, piuttosto, con aree la cui nascita psicologica non si è mai del tutto realizzata, oppure con aree che, per varie circostanze traumatiche, si sono disciolte e amalgamate nella impersonalità gruppale. Pensiamo soprattutto a quei pazienti dove il conformismo, l’identità convenzionale, si è sposata con coazioni di marca tossicodipendente che coesistono con occulti nuclei “psicotici” della personalità.” (Conferenze SPI 2009). 

 Il caso clinico della Dott.ssa  Antinori e soprattutto l’apporto teorico del Prof . Gaburri mettono in evidenza aree della personalità che possono veramente essere causa di sofferenze profonde e che rischiano di non essere mai “guarite”.  Ma l’immagine  dell’ “indifferenziato, così suggestiva, ha in se tutta l’ambivalenza, la  distruttiva,  l’abbiamo visto nel caso clinico,   ma anche la potenzialità rigeneratrice. E’ proprio l’equivalente biologico delle cellule indifferenziate,  quelle che vengono chiamate “staminali”. Sono cellule,  come medici lo sappiamo bene che possono degenerare in tumori ma che  sono  l’humus, la base dove ogni  tessuto prende per crescere e  rigenerarsi. Sono il futuro della terapia.  Veramente qui, il   biologico e lo  psicologico si fondono assieme, nella continua  lotta contro la tentazione all’ autodistruzione e la vittoria della rigenerazione, della vita.


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