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Pugni in tasca

Creato il 18 gennaio 2014 da Davideciaccia @FailCaffe

Nel 1965 un giovane regista di nome Marco Bellocchio esordisce nel mondo del cinema con un film fortissimo destinato ad entrare nella storia italiana.

Gli uomini sono in continua competizione per l’onore e la dignità, cose che quelle creature non conoscono nemmeno, e di conseguenza fra di loro sorgono per questa ragione invidia e odio e infine guerre: fra quelle creature invece niente di tutto questo. In secondo luogo fra quelle creature il bene comune non differisce da quello privato, per cui essendo esse per natura spinte a cercare il loro bene privato procurano per ciò stesso il bene di tutti.

 

Hobbes, Il Leviatano

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I pugni in tasca è un bel nome per un film. La critica dà il merito a Marco Bellocchio di aver perfettamente capito cosa c’era alle porte del 1968 e forse, dico io, di aver trovato un bel nome da darci a questa cosa. I pugni avvolti dalla fodera dei pantaloni non possono essere visti da nessuno e conservano, tesi, l’energia dirompente con cui dover fare i conti prima, poi o una volta su tutte. A guardarlo dopo cinquant’anni è ancora notevole l’ interpretazione di Lou Castel che unisce e confonde alla perfezione il suo ruolo di eroe ed antieroe. Disagio o disturbo? La domanda alterna le risposte senza mai essere abbastanza chiara.

1965, tre figli convivono nella campagna piacentina. Profondamente diversi, i giovani coltivano il sogno di liberarsi dalle opprimenti radici familiari e perdersi negli umori della città che cambia pelle in fretta, senza aspettare nessuno. Fra loro e il resto: una mamma cieca e debole, il quarto fratello con ritardo mentale, un’ora di macchina per arrivare in città. Augusto, il maggiore, ha la patente, un lavoro, una ragazza. Lui ci prova a fare il capofamiglia, ma la sue ambizioni sono oltre le quattro mura domestiche e, diviso fra una scelta che finalmente lo privilegi e la famiglia, non ha il coraggio di trasferirsi a Piacenza lasciando tutte le responsabilità agli altri due. Giulia è platonicamente innamorata di Augusto, lo ammira per i suoi successi lavorativi, per il modo in cui gestisce la sua vita affettiva, per la sicurezza con cui svolge il ruolo di riferimento per gli altri. L’unica vera soluzione inconsciamente riconosciuta dai figli è la morte naturale della madre. Forse cinica e silenziosa ma tuttavia reale, questa attesa è il tappeto sopra cui camminano durante il passare dei mesi, assecondando senza colpe apparenti il loro naturale egoismo e ingoiando come in una metafora qualcosa di più profondo: la solitudine dell’uomo di fronte al Mondo.

Pugni in tascaIl terzo fratello è colui che cambierà tutto. Sandro è geloso del rapporto fra Augusto e Giulia e coltiva obiettivi sempre più ambiziosi: conquistare la stima della sorella, diventare il nuovo punto di riferimento per lei ed arrivare alla città prima di quanto possa fare Augusto. Recita le Ricordanze di Leopardi e, come lui, paragona il borgo natìo ad un luogo zotico e selvaggio. Sono suoi i pugni che per vent’anni rimangono stretti in tasca e che ora sembrano scagliarsi duri in faccia allo spettatore. Emblema del film è la scena della veglia funebre in casa: prima fermo in piedi davanti al feretro, come a cercare un ultimo momento di raccoglimento, dopo pochi minuti Sandro siede accanto alla bara con i piedi comodamente incrociati. E’ qui che gli altri due, prima fra tutti Giulia, confessano l’eccitamento e lo stimolo scaturito da quanto successo. Un po’ di Sofocle e un po’ di Jung, Bellocchio descrive la favola millenaria della nuova generazione che per affermare se stessa rinnega la vecchia e la distrugge.

Pugni in tasca

Le case di riposo hanno salvato la vita a molte vecchiette? Forse, ma durante il passare dei minuti è un’altra idea che viene in mente. C’è una scena in cui Sandro vuole sfogare la sua energia, si annoia e per questo corre da un angolo all’altro del cortile. Sandro non studia, non lavora e non riesce neanche a prendere la patente. Lui sente di dover andare via, di doversi liberare da quel tutto o niente che ha intorno, ma neanche dopo aver eliminato l’ostacolo insormontabile che si riponeva nella madre riesce a capire in che modo può costruire una nuova vita.Continua a togliere di mezzo ciò che ritiene d’impiccio per la sua libertà, diventa attore di nuove disarmanti azioni ma sempre senza riscattarsi nè risolversi definitivamente. Il regista sembra quasi insinuare che la “piccola rivoluzione” del protagonista sia inutile perchè, nella sostanza, priva di riferimenti e di idee con le quali ripartire una volta finito il lavoro sporco.

Il film imbocca una strada disillusa, disarmante e molto interessante. Deve essere proprio la facile immedesimazione in uno scenario così confidenziale ad avermi reso sensibile alla domanda che con il passare dei minuti rimbalza verso lo spettatore: quanto siamo disposti a sacrificare per favorire noi stessi? 


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