È settembre. Ho 14 anni. Entro nel liceo che per 5 anni diventerà la mia casa. Un ex convento con soffitti altissimi e talvolta affrescati, finestre dai vetri sottilissimi, parti inutilizzate, spifferi ovunque. E professori che potevano essere bravissimi o scarsissimi, a seconda della fortuna e di chi andava in pensione. Per dire: ho fatto un liceo classico e non ho mai saputo il greco.
Venerdì pomeriggio, corro alla materna a ritirare i bambini, per poi partire verso Torino. Loro giocano in giardino, io aiuto la ragazza del doposcuola a far uscire una lucertola che era entrata in classe. Ridiamo, e io penso che sta davvero bene coi bambini. Altrimenti è un'attrice da Oscar.
L'anno scorso, il colloquio con le maestre mi aveva lasciata interdetta e vagamente ferita. Allora avrei parlato di una scuola che non si preoccupa dei bambini ma solo delle loro abilità, che intruppa, che vuole l'omogeneità a tutti i costi. Sono così contenta che le maestre di quest'anno, sia di Amelia sia di Ettore, abbiano smentito questa impressione.
L'anno prossimo ci aspetta il grande salto. Mi fa paura, non lo nego. Ho paura che Amelia non sia pronta. Ho paura che la scuola del nostro paese ci faccia rimpiangere quella del paese vicino, che però non accetta i non residenti. Ho paura del cambio di ambiente: dal paese più ricco di Lombardia, abitato da professionisti e gente mediamente colta/consapevole, a un paese che è a metà tra la riserva di operai agricoli e il dormitorio dei pendolari. Un paese per nulla attento ai bisogni delle famiglie e dei bambini, tant'è che l'asilo nuovo è stato progettato senza tenere conto dei piani regolatori e dell'afflusso di nuove famiglie. Un paese dove la biblioteca è aperta un'ora al giorno, in un orario impossibile. Un paese che ha un parroco talmente potente e idiota da pensare di chiudere il rifugio di una rara specie di pipistrelli, roba che in Francia ci farebbero un villaggio a tema intorno. Non ultimo, ho paura delle maestre che incontreremo: la scuola in Italia è una lotteria.