Alla luce delle nuove scoperte effettuate dalla sonda Dawn della NASA, qualcosa sembra non tornare quando si prova a tracciare la storia dell’evoluzione dell’asteroide. In uno studio guidato da Guy Consolmagno della Specola Vaticana e a cui ha partecipato Diego Turrini dell’INAF, i ricercatori propongono che il Vesta osservato ai giorni nostri sia, come la Luna, il risultato di un qualche processo catastrofico
di Marco Galliani
L’identificazione della famiglia di meteoriti HED (sigla derivata dai nomi delle tre componenti della famiglia ossia howarditi, eucriti e diogeniti) con frammenti della superficie dell’asteroide Vesta risale all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso. Dalle analisi di questi preziosi frammenti è stato possibile ricostruire una cronologia dettagliata della storia di Vesta, che ci ha rivelato come l’asteroide sia il più antico corpo del Sistema solare noto attualmente. I frammenti di Vesta arrivati sulla Terra ci hanno anche rivelato che Vesta è differenziato, ossia possiede una struttura stratificata, e che i frammenti in nostro possesso provengono dallo strato superficiale, una crosta dello spessore di qualche decina di km sovrastante un mantello formato essenzialmente diolivina e un nucleo ferroso (una miscela di ferro e nichel o ferro e zolfo) del diametro compreso tra i 50 e i 100 km. Infine, l’identificazione stessa delle HED come frammenti di Vesta ha rivelato che la crosta da cui provengono ricopre tutt’ora la maggior parte della superficie dell’asteroide, segno che questa è sopravvissuta alla violenta storia del Sistema solare.
Con la scoperta, negli anni ’90 del secolo scorso, del cratere gigante poi ribattezzato Rheasilvia al polo sud di Vesta e della famiglia degli asteroidi “vestoidi”, che le perturbazioni gravitazionali di Giove potevano “instradare” verso la Terra, il cerchio sembrava essersi chiuso: erano stati infatti individuati la sorgente dei meteoriti e il modo per farli arrivare fino a noi, il tutto nell’ambito di un quadro unico, semplice ed elegante. Facendo un salto avanti nel tempo arriva quindi il turno della missione Dawn, che si immette in orbita attorno a Vesta e inizia grazie ai suoi strumenti un’analisi sistematica dell’asteroide. Dawn conferma, su tutte le scale spaziali, l’identificazione delle HED con il materiale compositivo della superficie di Vesta e la sopravvivenza globale della crosta da cui si sono originate. Tutto bene, quindi? Non del tutto.
Sorprendentemente, infatti, l’olivina non viene trovata dove ci si aspettava fosse presente, ovvero nei maggiori crateri da impatto di Vesta (Rheasilvia e il sottostante, più antico, Veneneia) che avrebbero dovuto esporre il materiale del suo mantello. Invece, tracce significative di questo materiale vengono rinvenute solo in alcune piccole aree superficiali in prossimità del polo nord dell’asteroide. Un dato osservativo che solleva dubbi sullo spessore originario della crosta di Vesta: mentre le HED indicano che questa avrebbe dovuto essere dell’ordine di 20-40 chilometri, le nuove osservazioni di Dawn suggeriscono invece una “scorza” assai più spessa, di circa 80 chilometri. Allo stesso tempo, Dawn ci ha rivelato che il nucleo di Vesta ha un diametro compreso tra i 110 e i 140 km, un po’ più grande quindi di quanto inizialmente atteso. Un gruppo di ricercatori guidato da Guy Consolmagno della Specola Vaticana e a cui ha partecipato Diego Turrini dell’INAF ha recentemente analizzato questi nuovi dati in un articolo pubblicato online sulla rivista Icarus, rivelando come le misure di Dawn mettano in crisi la nostra visione pre-Dawn di Vesta.
«Il problema nasce quando mettiamo insieme i dati osservativi forniti dalle meteoriti con quelli di Dawn: la visione classica di Vesta diventa allora una coperta corta che non riesce a spiegarli tutti» spiegano gli autori. «Ad esempio: il grande nucleo di Vesta misurato da Dawn contiene una larga parte del ferro che dovrebbe esserci nell’asteroide, ma sulla base dei dati delle HED anche la spessa crosta rivelata da Dawn ne contiene notevoli quantità. Il ferro a disposizione di Vesta, però, non è infinito, ma è limitato dalle abbondanze cosmiche. Se la maggior parte del ferro è intrappolata nel nucleo e nella crosta, per esclusione il mantello di Vesta dovrebbe essere composto di olivina contenente magnesio anziché ferro. Questo tipo di olivina, però, ha una densità più bassa di quella della sua controparte basata sul ferro, il che ci pone di fronte a un nuovo problema. Se adottiamo la densità corretta per il mantello di Vesta, all’interno dell’asteroide non ci sarebbe abbastanza olivina da giustificare alcune caratteristiche compositive delle HED come l’abbondanza delle “terre rare”, elementi incompatibili con la composizione del mantello e del nucleo che quindi si andrebbero a concentrare nella crosta. Se invece volessimo spiegare l’abbondanza delle “terre rare”, il mantello di Vesta dovrebbe avere densità ben più alte e fisicamente inconsistenti con la composizione chimica ipotizzata»
Una maggiore densità del mantello si traduce però in un maggiore quantità di olivina ricca di ferro: a questo punto, quindi, Vesta avrebbe troppo ferro rispetto alle abbondanze cosmiche. Se mettiamo insieme gli scenari che emergono dalle osservazione delle meteoriti e di Dawn, affermano gli autori dell’articolo, c’è sempre qualcosa che non torna. «E’ un po’ come cercare di fare una torta conoscendo gli ingredienti ma non le loro dosi. Il problema è che, provando le varie combinazioni, non si riesce a trovarne una che soddisfi tutti i requisiti: Vesta sembra essere un corpo praticamente impossibile da ricostruire e giustificare».
Un problema senza via d’uscita? Forse no. «Tutti questi calcoli assumono che il materiale primordiale da cui si è formato Vesta avesse abbondanze cosmiche dei diversi elementi, simili a quelle osservate oggi nel Sole, e che queste abbondanze siano rimaste inalterate fino alla solidificazione completa dell’asteroide dopo la sua differenziazione» spiegano gli autori dell’articolo. «E’ sufficiente rimuovere la seconda parte di questo assunto per spiegare l’incongruenza tra il quadro dipinto da Dawn e dalle HED». La proposta degli autori dell’articolo è che il Vesta osservato ai giorni nostri da Dawn sia, come la Luna, il risultato di un qualche processo catastrofico. L’ipotesi più probabile è un impatto gigante sufficientemente energetico da strapparne via materiale e alterarne la composizione globale prima che l’interno dell’asteroide si solidificasse definitivamente.
La visione dei ricercatori è che Vesta sia quindi un corpo celeste formatosi nelle primissime fasi di vita del Sistema solare e arrivato fino ad oggi sostanzialmente intatto, ma non del tutto preservato. Il Vesta dei primordi, la cui composizione originale è stata “fotografata” dalle eucriti e dalle diogeniti, e quello che vediamo adesso non sarebbero necessariamente gli stessi. Questo cambio di prospettiva, come ammettono gli stessi autori, se da una parte risponde ad alcune domande dall’altra ne apre molte di più. Il caso della disputa sull’origine della Luna è emblematico sotto questo aspetto. La teoria dell’impatto gigante infatti non è nuova, eppure ancora oggi stiamo cercando nella composizione della Terra e del nostro satellite naturale vincoli per capire quale sia, tra i possibili tipi di impatto e le possibili composizioni del proiettile, la combinazione più adatta a spiegare la Terra e la Luna che vediamo oggi. Sarà lo stesso anche per Vesta?
Fonte: Media.inaf.it