Due scene spiegano tutto il significato della terza stagione di The Newsroom.
La prima, durante il secondo episodio, vede di fronte Charlie Skinner, giornalista di vecchissima scuola e direttore del canale televisivo che “ospita” la serie, e Hallie, blogger e socialmedia manager del suddetto canale.
Charlie ha appena licenziato Hallie per aver twittato una battuta sciagurata riguardo i Repubblicani e gli attentati alla Maratona di Boston. Charlie però è un giornalista, curioso per natura e per mestiere, quindi deve fare una domanda prima di congedare Hallie: “Quando lo hai scritto, in quel preciso momento, che valore pensavi avrebbe avuto?”, e lei – candidamente – gli risponde “Retweet”.
Charlie rimane qualche secondo senza parole, quasi inebetito: non comprende; o meglio, si rifiuta di credere.
E fin qui direte, beh niente di nuovo, la classica scena del vecchio a cui non piace il nuovo, sai che novità. Calma ragazzi, non così in fretta.
Perché nella sesta puntata, durante un flashback di quando Will McAvoy ancora non aveva deciso di tornare a fare il vero giornalista, Charlie si sta lamentando con Will per aver fatto cinque minuti di trasmissione sul “tempo”.
Will trasecola e dice a Charlie che il meteo fa ascolti e aggiunge “cosa vuoi di più?”, Charlie sospira, guarda Will e dice “le notizie” e allora Will crede di sfoderare il più grande asso della manica che si possa usare con il direttore di un canale che trasmetta solo notizie: “Ho il secondo telegiornale più seguito della nazione”.
Ma Charlie lo guarda sconsolato, nello stesso ufficio in cui guarderà Hallie, e gli dice “non me ne frega un cazzo”.
Perché è importante questo dialogo incrociato? Lo è perché Sorkin (il pluripremiato sceneggiatore della serie, vincitore anche di un Oscar per “The Social Network”) non sta prendendo la strada facile: non ci sta dicendo che le cose vanno male per colpa delle nuove generazioni.
Al contrario, ci sta dicendo che la società americana (e di converso un po’ tutta la società occidentale) ha preso una brutta piega da parecchio tempo. E in particolare ha preso una brutta piega da quando i giornalisti hanno cominciato a pensare agli ascolti più che a dare notizie e fare domande scomode "ai potenti".
Su questo fil rouge viaggia buona parte della stagione conclusiva di questa meravigliosa serie sul giornalismo, in un conflitto tra “old” e “new” media, dove però il primo non è quello vero, ma è quello che purtroppo tocca a noi.
L'old journalism è lontanissimo da quello ideale, tratteggiato dallo stesso Sorkin.
Un Sorkin diabolico, implacabile nel farci notare che a noi tocca il giornalismo "avariato": volete un esempio?
È il primo episodio, e Sorkin ci fa vedere come una emittente seria avrebbe dovuto “coprire” gli attentati alla Maratona di Boston. Ricordate la vicenda? Due fratelli di origine cecena hanno piazzato degli ordigni artigianali nel tratto finale di una delle maratone più famose del mondo, causando decine di feriti e tre morti.
Essendo un evento molto popolare seguito da centinaia di migliaia di persone, con – per di più - migliaia di smartphone sul luogo dell’incidente pronti a twittare e fare foto, per lunghi minuti il web dava già la notizia di un attentato terroristico senza che le autorità avessero rilasciato un comunicato.
E infatti tutte le reti tv andarono dietro a twitter, iniziando a parlare di attentato terroristico stile undici settembre (dando per scontata la radice islamica) senza aver niente in mano, se non tweet di semplici cittadini.
La produttrice della nostra trasmissione ideale, di fronte alle pressioni dei suoi social media manager di andare in onda per riportare i “rumori della rete” risponde: “ma quale emittente seria lo farebbe?”.
Impietose sullo sfondo scorrono le immagini delle emittenti "reali" di tutto il mondo che lo stavano facendo…
Si potrebbe andare avanti e fare tanti esempi degli enormi problemi che il crowdsourcing, la capacità dei new media (twitter e facebook in primis) di arrivare sulla notizia prima di tutti, la crescita a perdita d’occhio di siti e blog che danno notizie ed opinioni, stanno inserendo.
Il messaggio che ci sta dando Sorkin è che l’informazione 3.0 sarà fatta su misura del lettore in una maniera del tutto nuova e cioè sempre più mirata al singolo individuo: ognuno leggerà sostanzialmente solo notizie che corroborino idee e impressioni che ha già.
(Se ci pensate bene non manca tanto, lo sapete, basta scorrere la vostra timile sui social per scoprire che condividete gran parte delle cose che vedete. E non è un caso).
Ma il buon Aaron Sorkin sta dicendo ai 40 e 50enni (soprattutto alle elité con la puzza sotto il naso): "Ragazzi, questo fenomeno non se lo sono inventato i nerd della Silycon Valley, ma siete stati voi, quando avete iniziato a fare “le news” guardando agli ascolti invece che a quello che fosse importante da riportare".
Iniziando cioè, a fare giornalismo spettacolo. Quel giornalismo che non fa le domande difficili, ma fa quelle popolari.
In questo monologo iniziale c'è tutto:
Insomma, Sorkin ci vuole dire: stiamo andando a sbattere e per uscirne è necessario un lavoro “multigenerazionale” in cui nessuno può tenere il dito puntato - al massimo, i vecchi giornalisti che hanno fatto la guerra in Vietnam e ormai vanno in giro con il papillon.
Domenico Cerabona
@DomeCerabona