Oggi è la giornata scelta per la celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia — lo sappiamo tutti e non è il caso che ci spenda tempo e parole.
Ma una cosa devo dire. Anzi due.
La prima è che in realtà il 17 marzo 1861 non fu sancita l’unità d’Italia, bensì soltanto la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia. Di fatto, all’appello mancavano ancora Roma e le tre Venezie — la prima verrà conquistata nel settembre del 1870, mentre l’annessione delle seconde si compirà fra il 1866 e il 1918. Quanto al re, il Savoia era già sovrano di uno staterello comprendente Piemonte, Liguria, Savoia e Sardegna col nome, appunto, di Vittorio Emanuele II. Al momento della proclamazione del regno, gli fu chiesto di assumere il nome di Vittorio Emanuele I per sottolineare il distacco dal vecchio stato di cose e l’inizio di una nuova èra: lui si rifiutò — Vittorio Emanuele II era, e Vittorio Emanuele II sarebbe rimasto. Era il Regno di Sardegna ad aver conquistato l’Italia, non il contrario; era il Piemonte ad aver allungato le mani sulla penisola, e il Savoia non aveva bisogno dello Stivale per essere re. È sulla base di queste non confortanti premesse che il nome geografico Italia (per dirla col Metternich) divenne regno e nazione.
La seconda è che se davvero c’è qualcuno che ha tutto il diritto di rifiutarsi di partecipare alle celebrazioni dell’evento, questo è il popolo delle ex Due Sicilie: che fra il 1860 e il 1865 fu affogato nel sangue di una guerra civile odiosa ed esecrabile, con strascichi dolorosi che si protrassero per decenni. Certo non ne hanno diritto i furbetti della Lega — ché se la Repubblica italiana fosse uno Stato serio (e non è né l’uno né l’altro), non avrebbe mai neanche preso in considerazione l’ipotesi di accettare la costituzione in partito di un movimento volto a promuovere la secessione ovvero a ripristinare sia pure parzialmente la divisione dell’Italia contro la quale operò appunto il Risorgimento. Ma siccome pare che certo Nord voglia riprendersi gli antichi privilegi, confondendo ad arte la mala gestione centralista con lo spostamento del centro, non si vede perché non voglia scendere in piazza a festeggiare: il 17 marzo 1861 si celebrò la vittoria del Piemonte, non certo di Roma.
Così gli auguri li faccio a mio figlio e alle nuove generazioni, che possano vivere in un’Italia migliore — ché quella di adesso se non è ai minimi storici siamo lì, e per fare più bella figura ci vuol poco, mi sa.