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Quando c'era Berlinguer. Regia di Walter Veltroni

Creato il 01 aprile 2014 da Loredana De Michelis @loridemi
Quando c'era Berlinguer. Regia di Walter VeltroniPadova, cinema Astra di Via Tiziano Aspetti, Venerdì 28 Marzo 2014. Ci sono proprio tutti: un ragazzo che chiede firme per la liberalizzazione dell’informazione televisiva, 3 carabinieri imbarazzati, quattrocento nostalgici over 50, con i capelli bianchi ma ancora arruffati e le pipe piantate nelle barbe lunghe.
I posti non bastano e molti restano in piedi, a guardar parlare il segretario Bettin, il sindaco-ministro Zanonato, il sindaco reggente Ivo Rossi. Walter Veltroni aspetta quieto il suo turno, con le mani dietro la schiena e l’espressione assente negli occhiali grandi.
Una serata in sordina, non lo sapeva quasi nessuno. Eppure questa è la città che il 7 Giugno 1984, riunita in Piazza della Frutta, gridò “Basta! Basta!”, cercando di fermare lo spettacolo biblico e spaventoso di un uomo oramai senza vita, determinato a stare in piedi lo stesso, che comandava la morte imponendole di lasciargli il tempo di finire ciò che aveva iniziato: un discorso.
Berlinguer moriva qui a Padova, nella città più politicizzata d’Italia, in diretta televisiva.
Io non me lo ricordavo: arrivai tre mesi dopo per iniziare l’università e a Piazza della Frutta d’importante ci trovai il banchetto delle ostriche e il prosecco del Bar degli Osei.
Venivo dalla periferia di Torino, dove le faide tra meridionali e le risse in discoteca a colpi di catena erano più attuali delle lotte di classe. Della marcia dei colletti bianchi ricordo soltanto che il pullman fu bloccato a Mirafiori all’altezza di Corso Unione Sovietica e dovemmo farcela a piedi fino a scuola, correndo per attraversare i palazzi di via Artom, dove gli spacciatori sparavano dai balconi alle auto della polizia.
Adesso sono qui: questa città oramai non è più mia e salutarla così, ritrovando un po’ di tizi vintage, di quelli che al mio primo anno di università si aggiravano sparuti e fuoricorso, con l’eschimo e l’aria perennemente incazzata, mi è sembrata una buona idea, così come quella di guardarmi un documentario che temo essere un po’ palloso, ma culturale.
Sono preparata ad una certa retorica e a nozioni che riempiranno i miei gravi buchi di conoscenza: appartengo a una generazione più giovane di quella di Veltroni, appena sfiorata dall’ultimo vento degli anni settanta, che per noi odorava di armadio vecchio. Poi erano arrivati i vestiti firmati e quelli erano nuovi; ci eravamo precipitati a Berlino a bere la vodka dell’est per festeggiare il crollo del muro e dopo c’era stato quel videogame mozzafiato in televisione, la Guerra del Golfo: il capitano Cocciolone pilotava un tornado e il filmato che lo mostra prigioniero dei nemici, gonfio di botte e ammanettato, mentre ripete eroico: “My name is Maurizio Cocciolone…”, beh, io me lo ricordo come se fosse ieri, molto più nitido di quei filmati quasi in bianco e nero di prima, con tutta quella gente gambizzata ogni giorno al telegiornale, che non faceva più notizia ed era tutta uguale, grigia, vecchia, magra, con i vestiti larghi, appesi alle ossa, proprio come sta dicendo Jovanotti.
Hey Walter, sei impazzito? Che ci fa Jovanotti nel tuo film? Lui ha la mia età: era quel pirla che cantava “Guarda mamma come mi diverto”. Perché adesso sta dicendo quelle cose così ispirate, che quasi sembrano di Pasolini, e tu piazzi proprio due fotogrammi di un Pasolini con gli zigomi che gli bucano la faccia e il vento di una spiaggia che gli massacra i vestiti larghi, mentre citi le sue Lettere Corsare? Va bene che sei anche critico cinematografico e qualcosa di cinema saprai, ma la scena da oscar della piazza e della macchina da presa che sale dietro le statue è già stata un colpo basso: questo documentario doveva essere una memoria storica, che intenzioni hai?
Chi sono quei ragazzini seduti in sala con lo sguardo ipnotizzato? Li noto solo ora. Così come soltanto adesso mi accorgo che quell’uomo, Berlinguer, che in televisione fece da sottofondo alla mia infanzia e a mille minestre col fomaggino Mio, parlava un italiano perfettamente trascrivibile, ed era capace di esprimere 20 concetti seri, chiari e coerenti, con 22 parole.
Ferma il film e fammi un rewind: dice troppa roba tutta inseme, non riesco a stargli dietro. Ma anche gli altri, veramente, adesso che li ascolto, persino i tuoi intervistati, Walter: come diavolo parlano? Davvero qualcuno ai tempi era in grado di capire questo linguaggio così denso? Oggi siamo al 40% di analfabetismo funzionale e tu vuoi farmi credere che io allora consideravo questo lingua normale e che gli operai si leggevano quei carteggi pubblicati dai giornali, quelle lotte di fioretto verbale tra persone coltissime, che finirono per rispettarsi e ammirarsi tutta la vita, come dice quel Monsignore, pur appartenendo a fazioni opposte?
A che punto della storia si è persa, esattamente, questa capacità di parlare in modo così chiaro e intenso e di pensare nello stesso modo?
Io che ho imparato a scrivere almeno tre righe prima di piazzare un concetto blando, servendolo anche a tradimento, altrimenti mi cala l’audience, vorrei sapere: come riuscivano costoro, che fanno sembrare i discorsi di Grillo e di Renzi quelli di un ragazzetto confuso, a tenere l’audience così alta da inchiodare migliaia di persone in una piazza, senza neanche una birra?
Questo film mi lascia ammaccata, a pensare con orrore a quanto ci siamo rincoglioniti; come zombie vaghiamo tra lettini e ombrelloni, senza altro che un medioevo di fotografie da mostraci a vicenda.
Non mi stupiscono l’indifferenza e le poche recensioni acidine che criticano le inezie: altro non riusciamo più a vedere e Walter Veltroni, sia detto, non assomiglia per niente all’ultimo dei Mohicani. Ma a guardarlo bene, con quel fisico strano e quell’espressione remota, mi domando se quest’uomo non abbia invece, con mossa inaspettata, sganciato nello spazio l’ultima capsula con il dna di una civiltà morente, nella speranza che un giorno qualcun altro la possa far rinascere.
La luce negli occhi improvvisamente giovanissimi di Napolitano che si commuove, dicendo con foga “E’ stato il senso di tutta una vita”, potrebbe essere neve fresca, servita su piatti d’argento, a ragazzi che ora muoiono di sete, nel deserto di sesso, droga e rock’n roll, senza neppure il ricordo di una rivoluzione.
Spero che questo film circoli virale, che non venga affossato dai mediocri spaventati, perché è una mazzata da prendere a spalle curve, almeno una volta. Per non morire senza.
Con la vergogna e la speranza che almeno, qualcuno, che non fummo noi, senza più smarrire la conquista, in futuro, poi.
Loredana de Michelis

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