Magazine Lavoro
Spesso, ricorda Campari, indicano piani produttivi. “Non ci siamo mai stancati di dire che non è licenziando che si salva la fabbrica, ma sfruttando tutti gli impianti”. Quel giornale non è solo un “agitatore collettivo” ma “un creatore e organizzatore di cultura”. Sono (anni 50) 160 edizioni, con 170 mila copie. I redattori operai partecipano anche a un convegno nazionale a Milano, nella sede dell’Associazione Stampa Lombarda con Giuseppe Di Vittorio per la Cgil (ma anche Sangalli della Cisl e Vigorelli della Uil). Marcella Ferrara (la mamma di Giuliano) scrive su “Rinascita”: …Scrittori, cineasti, giornalisti e artisti molti per la prima volta in vita loro, hanno saputo che in Italia gli operai non solo lavorano, non solo lottano per mantenersi il loro lavoro, ma - ormai in gran numero – scrivono e redigono giornali…”.
Tutta roba del passato? Quella esperienza è ripresa negli anni 60 e 70 dai consigli unitari voluti dai sindacati. E oggi? L’autore del libro, poi passato anche all’Unità a occuparsi in particolare di pubblcità, non nega le trasformazioni intervenute. Molte di quelle testate ricordano fabbriche che non ci sono più. E oggi forse bisognerebbe ricorrere a comunicazioni diverse, attraverso il web. Sopratutto per il popolo diffuso dei precari, magari affidando la loro redazione non a solo a funzionari del sindacato ma soprattutto agli interessati.
E poi visto che si parla tanto di contrattazione aziendale (magari solo allo scopo di uccidere il contratto nazionale) perché non prendere sul serio questa presunta disponibilità imprenditoriale. Sarebbe importante organizzare un rilancio vero di una contrattazione aziendale, anche in tempo di crisi, collegata e non in contrapposizione al contratto nazionale. Fondata sulla partecipazione vera dei lavoratori, non chiamati solo a partecipare allo sciopero o per un No o Un Si a una trattativa difficile. E allora si potrebbe anche rimettere in campo giornali (di carta o on line) nei luoghi di lavoro. Potrebbe essere un modo per riscoprire l’unità e per dar vita a una partecipazione consapevole, che non si occupa solo di attendere una qualche elargizione in utili calati dall’alto. Un’utopia? Il postfordismo lo vieta?
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