Sin dalle prime battute è facile capire che sarà più di una normale partita di basket. Non solo rossi contro bianchi, dunque, ma Est contro Ovest, Patto di Varsavia contro Nato, comunismo contro capitalismo.
Monaco di Baviera, Germania Ovest, 9 settembre 1972. Riflettori puntati sui 6500 spettatori che gremiscono la Rudi-Sedlmayer Halle, dove le nazionali di Unione Sovietica e Stati Uniti d’America si giocano la medaglia d’oro del torneo di pallacanestro maschile della XX Olimpiade. Sin dalle prime battute è facile capire che sarà più di una normale partita di basket.
Non solo rossi contro bianchi, dunque, ma Est contro Ovest, Patto di Varsavia contro Nato, comunismo contro capitalismo. Gli americani, pionieri del gioco, appaiono sulla carta imbattibili, con all’attivo sessantatré vittorie su altrettante gare disputate, da quando il gioco della palla a spicchi è stato introdotto nella rassegna olimpica. I sovietici, dal canto loro, sentono il dovere di trionfare lì, in quella che fu la patria del nazismo, del cui annientamento vantano l’esclusivo merito. Compiere quest’impresa a scapito degli americani, i “giganti”, del basket e non solo, sarebbe il massimo, e così la nostra storia diventa una sfida infuocata.Partita dominata dai nervi tesi più che dal bel gioco; quel pallone pesa come un macigno tra le mani dei giovani cestisti. Dieci secondi dal termine, dopo una straordinaria rimonta gli yankees si portano ad un solo punto di svantaggio; palla ai sovietici, per il possesso forse più importante dell’incontro: uno sciagurato passaggio del russo Belov è preda del rapido folletto statunitense Doug Collins, che può così involarsi verso il canestro avversario.
Fallo, due tiri liberi, entrambi realizzati. A tre secondi residui sul cronometro, il tabellone recita: USA 50 – URSS 49. L’Unione Sovietica effettua così una disperata rimessa in gioco, nuovamente intercettata dagli Americani; nel frattempo gli animi si scaldano a bordo campo, dove l’allenatore sovietico Kondrasin salta ed urla come un ossesso, reclamando l’assegnazione di un time-out richiesto, a suo parere, durante i tiri liberi di Collins. Così l’incerto arbitro brasiliano Renato Righetto fischia, accordando il minuto di sospensione ai rossi; la decisione successiva è di far ripartire il gioco con una nuova rimessa sovietica ed un solo secondo da giocare. Rimesso in gioco il pallone, la sirena suona per la fine del tempo e gli americani possono finalmente sfogare tutta la tensione, festeggiando con pianti e grandi abbracci la clamorosa vittoria di una partita che sembrava già persa. Sembra finita, ma non è così. Infatti si è fatto strada tra i giocatori festanti un nuovo personaggio, il segretario generale della FIBA, il quale, pur non avendone l’autorità, decreta l’irregolarità del finale della partita ed ordina che sia effettuata una terza rimessa sovietica, ripartendo questa volta dai tre secondi originari. Tra le proteste e lo sgomento generale, viene ristabilito l’ordine nelle prime file degli spalti e, richiamato anche un cospicuo numero di giocatori dagli spogliatoi, è autorizzata la ripresa del gioco.Ciò che avverrà nei secondi successivi, attimi, gesta, rumori, entrerà negli annali: istanti che sembrano venir fuori da un romanzo, e fanno diventare una partita di pallacanestro l’esempio di come la bellezza dello sport possa diventare violenta, se vi si intromettono fattori che con questo nulla hanno a che fare. È in quegli attimi che il russo Belov ha arpionato in volo il pallone, si è liberato con l’aiuto tutt’altro che timido dei gomiti e ha bucato il fondo della retina; poi quel suono, il fischio liberatorio della sirena.
A gioire, dopo una partia incredibile, è la spedizione sovietica. Gli Statunitensi presentano immediatamente ricorso, e, in quegli anni, nel pieno della guerra fredda, il mondo diviso in due, diventa fondamentale la composizione della commissione internazionale: saranno i delegati di Italia, Porto Rico, Cuba, Ungheria e Polonia a portare sulle spalle il fardello dell’assegnazione di una medaglia d’oro mai così pesante.Facile immaginarlo: i voti dei commissari di Italia, che dal 1949 era membro della NATO, e di Porto Rico, territorio non incorporato degli States, virano inevitabilmente in direzione USA.
I giudici ungherese e polacco, invece, votano per respingere il ricorso, proclamando la legittimità della vittoria del colosso sovietico. Ago della bilancia diviene così il commissario cubano. L’isola caraibica era stata, tredici anni prima, teatro della rivoluzione castrista, che portò Cuba ad avvicinarsi all’orbita sovietica e divenire un prezioso alleato in una zona strategica. Pertanto il delegato de l’Avana premia l’URSS ed il ricorso statunitense viene rigettato. The “Theft”, il furto, è compiuto: gli americani, delusi e arrabbiati, non si presentarono alla cerimonia di premiazione e mai accettarono la medaglia d’argento.
Ma il vero sconfitto quella sera fu il gioco: mai come allora la politica era entrata nel sistema e ne aveva mutato il regolare svolgimento.
Doug Collins, intervistato in occasione dei giochi Olimpici di Londra 2012, dirà : “ Ho avuto una vita felice. Ma se Dio mi concedesse di tornare indietro, per una volta, non avrei dubbi: chiederei di poter rigiocare una partita. Quella finale del 1972”.
Perché in fondo questa storia è una partita che non udirà mai la propria sirena finale. Mai nessuno potrà dimenticare di quella volta, quando i giganti finirono al tappeto.
Marco Zurlo