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Quando il calcio ci faceva ancora sognare

Creato il 20 maggio 2015 da Alessandro Zorco @alessandrozorco
Quando il calcio ci faceva ancora sognare

Avere otto anni è un'età ragionevolmente giusta per appassionarsi morbosamente del gioco del calcio. La mia scoperta del gioco del calcio risale al 1974, quando avevo appena compiuto proprio otto anni. Se per Messico '70 ero troppo piccolo per capire le regole di quello strano gioco, l'estate del 74, quando i Mondiali si giocarono in Germania Ovest mi trovò finalmente pronto a recepire il mistero di ventidue persone in mutande che rincorrevano un pallone. Allora però la Rai trasmetteva tutte le partite. Non esistevano diritti televisivi, non esistevano pay-tv e il calcio era ancora il gioco più bello e democratico del mondo. Era talmente bello che quell'estate vedere tutte quelle partite mi creò una certa dipendenza. Le partite erano come il cioccolato, ne finiva una e non vedevo l'ora che ne iniziasse un'altra. Era un gioco talmente bello che dopo quell'abbuffata calcistica decisi che avrei voluto imparare a giocare come giocavano quelle persone in mutande. Ovviamente non chiesi a mio padre di andare ad una scuola calcio. Decisi di imparare da solo. In camera mia.

Il calcio visto dalla mia camera

Ho iniziato a giocare a pallone all'età di otto anni. Da solo in camera mia. Non avevo pallone. Mi allenavo con una palla di calze. L'allenamento tipo consisteva nel fare più palleggi possibile e poi sparare una bordata all'incrocio dei pali della porta. I palloni veri, il SuperTele e il San Siro, sono arrivati molto più tardi. Così come il pallone di cuoio. Era bellissimo. Me lo aveva regalato zio Gianni quando ero già al ginnasio. Ne andavo orgogliosissimo ma, improvvidamente, lo portai all'Ossigeno (nota struttura sportiva cagliaritana) per una partita del torneo scolastico. Mai portare il pallone nuovo ai tornei di calcio della scuola! O ve lo fottono o lo perdete. Il mio lo perse un compagno di scuola, un difensore arcigno dai piedi storti che lo lanciò nei campi incolti dall'altra parte della recinzione con un rinvio maldestro. Quando andammo a recuperarlo a fine partita non lo trovammo. Il mio compagno mi promise che l'indomani avrebbe nuovamente scavalcato il muretto dell'Ossigeno per cercare ancora il mio pallone. Qualche giorno dopo mi disse trionfante che lo aveva trovato e mi consegnò un pallone orribile e vecchissimo che non assomigliava neppure vagamente al mio. Forse quella è stata la prima vera truffa che ho subito nella mia vita, se si eccettuano le figurine che mi hanno sbullato giocando a scalineddu sul marciapiede quando ero più piccolo.

Eppure le lunghe sessioni di allenamento avevano affinato le mie doti di calciatore. Il numero dei palleggi con la palla di calza aumentava sempre più. Quando mio fratello ebbe un'età calcisticamente matura, circa quattro-cinque anni, iniziai ad addestrarlo quotidianamente ad usare i piedi anziché le mani per lanciare la palla. Fu un addestramento difficile, ma quando apprese finalmente la lezione ci impadronimmo con la forza dell'andito di casa che divenne teatro di sfide memorabili, tra le urla di nostra madre disperata quando la palla frantumava qualche oggetto sulle mensole (cosa che capitava purtroppo spesso).

I miei genitori, assecondando la mia insana passione per il calcio, all'età di dieci anni circa mi avevano regalato i due volumi che non dovevano assolutamente mancare nella biblioteca di un ragazzino che alla fine degli anni Settanta era appassionato di calcio. Il primo era la biografia di Pelè: " La mia vita il più bel gioco del mondo". Il secondo era il Manuale del Gol dove erano disegnati gol fantastici tipo quello di Burlando, realizzato con un colpo di testa da centrocampo. Immancabile naturalmente era ogni anno la raccolta delle figurine dei calciatori Panini.

Il mio addestramento calcistico è proseguito alle elementari con partite quotidiane all' Infanzia Lieta, in cinquanta dietro una pallina da tennis o spesso dietro una pigna, e poi alle scuole medie. Lì la mia carriera calcistica ha però avuto uno stop perché all' Alfieri, la scuola che frequentavo, i miei compagni erano appassionati soprattutto di basket, sport nel quale ero negato.

Nel frattempo però continuavo ad allenarmi da solo con la palla di calza nella mia camera. Ero imbattibile. Arrivai a fare cento palleggi conclusi con l'immancabile bordata all'incrocio della porta.

Quando il calcio ci faceva ancora sognare

Arrivato al ginnasio, al Dettori, iniziai a partecipare ai primi tornei scolastici, voglioso di esprimere le mie potenzialità. La mia squadra aveva la maglia dell'Astonvilla con i colori blu e granata. Colori che ho poi spesso utilizzato anche giocando ad hockey su prato con il Cus Cagliari. Io ero il numero otto. Un grande rammarico della mia vita è che nell'unica partita che mio padre è venuto a vedere mi fecero giocare in difesa e feci due autogol. Di testa. Successivamente papà non mi ha mai più visto giocare ed è tuttora convinto che io a calcio sia sempre stato una pippa stratosferica.

Al liceo l'ora di educazione fisica era una figata perché i professori ci lasciavano giocare: partite all'ultimo sangue nel campo da pallamano e spesso, anche in quel caso, vetri frantumati dalle pallonate. La palla era ancora cambiata. Non era più la pallina da tennis o la pigna. Ma qualcosa di molto più professionale. Al Dettori giocavamo con degli strani palloni di gomma blu o rossi. Erano delle specie di palle mediche, molto più pesanti del pallone regolamentare. Erano palle dalle traiettorie indecifrabili. Traiettorie come quella che riuscì ad imprimere una volta Gigi Medde. Non era molto forte a calcio e giocava con i mocassini. Ma quella volta con il mocassino ci cravò una puntera da lontanissimo. Ricordo che la palla partì velocissima, prese una traiettoria incredibile tipo cartoni animati giapponesi per poi insaccarsi all'incrocio dei pali della porta da pallamano.

La mia squadra perse con un gol di scarto e da quel momento capii che per avere successo, nella vita come nello sport, non bastano il sacrificio e l'allenamento costante. Bisogna avere anche molto culo.

Dopo di che smisi di allenarmi. Ripresi a praticare il calcio all'Università giocando ogni sabato con i miei amici nel campo in cemento dell'Amsicora sotto il sole cocente dell'ora di pranzo e nei campi (prima in terra battuta e poi in erba sintetica) del Cus Cagliari, a Sa Duchessa. Pensavo che la tradizione della partita del sabato pomeriggio sarebbe durata per tutta la vita, invece per motivi di vario genere ho dovuto interrompere. La vita d'altronde è strana. Fa traiettorie imperscrutabili come una puntera sparata con un mocassino.

Quando il calcio ci faceva ancora sognare

Tranne qualche partita di torneo in coppa Retore e qualche disastrosa partecipazione a due o tre tornei di calcetto il mio rapporto con il calcio è stato sempre e soltanto amichevole. Il calcio è diventato anche argomento di studio quando negli anni Novanta, mentre scoppiavano i primi scandali del calcio scommesse, ho fatto la tesi in Diritto penale sulla Frode Sportiva. Reato quanto mai attuale anche in questo periodo.

Il bello dello sport è l'incertezza, l'aleatorietà. Il bello dello sport è quando la passione, l'entusiasmo e l'unità di una squadra riescono a sovvertire i pronostici. Quando la squadra sulla carta più debole riesce a battere quella più forte e blasonata. Il calcio, come la vita, è bello se fa sognare, se mette in gioco le emozioni più pulite. Per questo al calcio di adesso preferisco quello che mi ha fatto sognare quando avevo otto anni. Quando non giravano troppi soldi, non c'erano diritti televisivi e la Rai il mercoledì trasmetteva in chiaro tutte le partite di Coppa. E tutti le potevano vedere, anche chi non aveva i soldi per farsi l'abbonamento a Sky. Quando ascoltavamo alla radio Tutto il calcio minuto per minuto. Quando c'era Novantesimo minuto con Paolo Valenti e alla Domenica sportiva davano subito i servizi con i gol e non ti massacravano di parole e tatticismi inutili. Rimpiango il calcio di quel periodo. Quando ogni settimana mi compravo il Guerin Sportivo. Ma quel calcio è solo un labile ricordo. Come il pallone di cuoio che mi aveva regalato zio Gianni e la puntera dalla traiettoria indecifrabile partita come un missile dal mocassino di Gigi Medde.


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