Cos’è questo nuovo Paese che spinge avanti e non arretra? Che pur non vincendo lotta caparbio senza accampare scuse? Che si mette in gioco come un corpo solo e affronta gli avversari in modo leale, rispettando le regole, anzi, trovando nelle regole nuova linfa per
ripartire unito? Questo Paese è l’Italia, l’Italia del rugby. È difficile non servirsi di una simile metafora stando qui all’Olimpico, ora che fi cielo si è fatto di nuovo di zucchero e nel frastuono roboante del pubblico i quindici ragazzi della nostra nazionale sputano sangue per non perdere con i maestri del gioco. Alla fine, ormai si sa, perderanno. Ma la lezione che arriva da loro oggi è più che mai parlante, anche perché forse l’aria di novità che si respira ci predispone a un diverso ascolto.
Il rugby è lo sport del collettivo. Da solo non farai mai meta, riuscirai nell’intento passando la palla agli altri, avendo cura di loro, voltandoti indietro per assicurarti che siano pronti a riceverla. La palla del rugby è ovale: non rotola, bisogna portarla a mano. Per farlo non ci sono colpi di genio, né colpi di fortuna. Anche per la meta, non si lancia e non si calcia, bisogna premere la palla a terra con le mani e con tutto il tronco. Bisogna esserci, oltre la linea di meta, e solo i tuoi compagni ti ci possono portare. Metro dopo metro, passaggio dopo passaggio. Per questo si chiama football: perché è giocato «a piedi» (non con i piedi), ovvero non appartiene ai dilettevoli giochi a cavallo dei nobili, bensì è il gioco dei fanti, di gente onesta che non ha paura della fatica e si è guadagnata col sudore tutto ciò che ha ottenuto. Non sembrano forse, questi ragazzi, quindici furgoncini di quelli che escono ogni
mattina all’alba verso i cantieri delle nostre città? Furgoncini di nuova generazione, lavoratori che credono nelle regole, che pagano i contributi ai loro operai e non evadono le tasse.
In questo sport, la cui durezza è seconda solo al gioco degli scacchi, il fair play è una necessità. Il comportamento scorretto infatti può provocare infortuni gravi, o
la morte. Non ci sono trucchi, insomma, ci si affida esclusivamente alla forza e all’intelligenza della squadra. Quale incitamento migliore per una popolazione che ha
sempre creduto nei sotterfugi, negli espedienti, nei privilegi personali? Che l’Italia stia voltando pagina è più che una senso. Guardando la partita era una certezza. Il nostro Paese è in una situazione rischiosa e, almeno a giudicare dal rugby, dove si rischia di più ci si comporta meglio. Il che ovviamente non impedisce le orecchie a cavolfiore, e qui veniamo alle suggestioni estetiche. Nella mischia la seconda linea deve infilare la testa tra l’anca del tallonatore e quella del pilone: l’attrito creato nella spinta massacra le orecchie. Ma chi se ne importa. I rugbisti non si aggiustano la frangetta, non sembrano dei tronisti come i
loro colleghi del calcio: il loro aspetto è il frutto di quello che gli succede lavorando. Come i nostri padri tabagisti e in canottiera, anche loro hanno facce e muscoli in funzione di quello che fanno. Ci suggeriscono un’Italia meno phonata.
«Il rugby è il modo migliore per tenere trenta energumeni lontano dal centro della città», disse Oscar Wilde prendendo una delle più grosse cantonate della sua vita. Ieri sera le squadre in movimento disegnavano gli arabeschi degli storni in volo e chiunque non
fosse privo di sentimenti poteva riconoscerne l’eleganza, l’armonia e sì, anche la grazia. L’Italia del nuovo corso può far tesoro di questi arabeschi, figurazioni dove ognuno ha il suo ruolo e non esiste gerarchia.
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