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Quando l’incipit è lungo

Da Marcofre

L’ultima eco della prova generale si spense, e gli attori della Compagnia dell’Alloro si ritrovarono senza altro da fare che starsene lì, silenziosi e smarriti, a guardare oltre le luci della ribalta verso la platea deserta, battendo le palpebre; osavano appena respirare, mentre la figura tozza e solenne del regista emergeva tra le nude sedie per raggiungerli sul palcoscenico e dalle quinte tirava fuori, trascinandola rumorosamente, una scala doppia, vi saliva fino a metà, e da qui si voltava e gli diceva, raschiandosi più volte la gola, che erano tipi maledettamente in gamba e che era proprio un piacere lavorarci assieme.

 

Avete letto tutto? Non siete scappati?
Si tratta dell’incipit del romanzo “Revolutionary Road” di Richard Yates, in Italia pubblicato da Minimum Fax. Di solito la regola è scrivere un incipit secco:

 

Londra.

 

Non così secco forse (esiste sul serio: così comincia infatti “Casa Desolata” di Charles Dickens). Però abbiamo esempi che vanno nella direzione opposta, come questo di Yates, o quest’altro di Garcia Marquez:

 

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.

 

D’accordo è più corto. Però?

Non amo i periodi lunghi. Forse perché una volta scrivevo proprio in quella maniera, e adesso mi pare di aver eliminato questo difetto. Però qui dobbiamo mettere da parte (a volte), i propri gusti e cercare di andare oltre; il lettore, quello bravo, si lascia sfidare da un autore e prova a vedere se c’è qualcosa che funziona anche in un territorio un po’ distante dal solito.
Se si è editori sarebbe bene cercare sempre di saltare gli steccati (ma non sempre accade). La vera domanda è: le frasi devono essere lunghe o corte?

La risposta genuina è: dipende.

A me è successo di leggere incipit lunghi come questo di Yates, scritti da autori esordienti, e lasciati sul Web: uno strazio. Se costoro leggessero invece di scrivere, forse allenerebbero la loro sensibilità a riconoscere la differenza tra il colpire i piatti di una batteria, e suonare la batteria.
Perché la lettura fa quello: irrobustisce. Accanto alla pratica della scrittura, anzi prima di essa, esiste quella della lettura.

Un autore che vuole imparare a scrivere (e non si creda che ci sia un giorno che segni la fine dell’apprendimento), si deve accostare alla lettura di un autore con pochi o zero pregiudizi. Perciò un incipit lungo, anche se sbalorditivo (in effetti ho pure pensato a un errore tipografico: che un punto ci fosse da qualche parte, ma fosse stato sostituito da un punto e virgola), rappresenta una sfida al nostro pregiudizio. Alla pigrizia.

Spesso non riusciamo a andare oltre i nostri steccati: troppo difficile. La bontà a volte non è composta sempre dagli stessi, conosciutissimi ingredienti. Amiamo gli incipit brevi, le frasi corte; ma anche nella lunghezza può esserci profondità e forza.

Questo incipit va proprio in quella direzione: da dietro gli steccati ci chiama, ci invita a saltare. Ancora non so se Yates mi piacerà, e può darsi che alla fine sia costretto a ammettere che non è né mai sarà uno dei miei preferiti.

Però è indubbio (almeno per me), che quella frase sontuosa faccia un figurone. Uno si fissa sulla sua lunghezza forse perché non ci sono altri difetti! È perfetta, e allora quando alla fine incontriamo il punto (finalmente!), pensiamo: “Ehi, ma sul serio questo è il primo punto che incontro?”.

La scelta delle parole (anche da parte del traduttore, certo), è stata talmente curata e azzeccata, che ci pare impossibile non esserci persi, o caduti nella noia, mentre con lo sguardo scorrevamo quelle parole. Eppure è successo.


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