Una volta si diceva “brutta” la prima stesura, quella scritta sul retro dei fogli riciclati; la “bella” invece, il testo definitivo da pubblicare o comunque sottoporre al giudizio del lettore, la definiva il lavoro di revisione, più o meno lungo a seconda delle variabili analizzate.
Nel mondo della narrativa in genere, gli integralisti della spontaneità sostengono che la “brutta”, primo fiore della scrittura, sia in realtà la “bella”, e che il lavoro scritto di getto dovrebbe essere revisionato solo per correggere i refusi; alla faccia dei “ragionieri” che licenziano il testo solo dopo un lungo lavoro di revisione. A giudizio degli “spontanei”, lavorare “di lima” sul tessuto della storia, curare la semantica, la sintassi, i tempi narrativi più appropriati, perfezionare il profilo dei personaggi che animano il racconto, equivale a “stuprare” la virginale ispirazione che ha guidato la mano dell’autore.
Balle! Sarò pure malizioso, ma denigrare gli sforzi per ottenere una buona prosa mi ricorda la favola della volpe e l’uva… Fatta eccezione per quella manciata di geniali teste di cazzo come Bukowski e compagni, autentici poeti la cui onestà li obbliga a ficcare il naso nel buco del culo della vita per annusarne il senso, la maggior parte degli scrittori necessita di una visione d’insieme della propria opera, vogliono assicurarsi di aver realizzato l’intenzione concettuale che ha codificato l’ispirazione. L’eccezione dei “geniali maledetti” non è l’assenza di un paradigma narrativo ma la sua essenzialità: scrivo ciò che percepisco, vedo, giudico, vivo, godo, soffro, con l’unica regola di non seguirne alcuna, sputo sulla carta il mio stream of consciousness, quel flusso di coscienza di matrice psicoanalitica che ha generato il Modernismo. Se è vero, come stigmatizza Ennio Flaiano, che “la psicoanalisi è una pseudo-scienza inventata da un ebreo per convincere i protestanti a comportarsi come i cattolici”, l’ideale del “flusso di coscienza” ha sdoganato l’illusione di una scrittura priva di qualsivoglia costrizione strutturale. Alcuni di questi autori, i pochi che si sono affermati, producono armonie affascinanti da testi scritti con la pancia, aggiungendo un modo nuovo di cucinare e servire il porco: una modalità in più, non certo la regola per fortuna, altrimenti dovremmo rassegnarci alle apnee causate dalle diarroiche deiezioni psichiche di questi autori.
Che sia artatamente spontanea o elaborata con cura la scrittura è codice, ed è al livello più basso che inizia il processo di formazione del paradigma che ne definisce la struttura; inconscia per chi scrive di getto, monolitica quanto si voglia ma sempre portante. Quando scriviamo una storia, fosse anche contenuta in due righe, più o meno consapevolmente utilizziamo un paradigma narrativo, perché la scrittura è il risultato di un codice strutturato secondo diversi livelli d’intenzionalità: dal semplice mezzo per comunicare informazioni, alla ricerca di linguaggi capaci di raccontare sentimenti, evocare emozioni, significare i pensieri che scorrazzano nelle praterie della mente, far marciare le parole come soldatini allineati e coperti verso la meta, altrui o propria che sia. L’intenzione concettuale dell’opera è la punta della piramide rovesciata che origina il paradigma narrativo. Quella relativa alla scrittura di questo articolo era di ragionare sulla distanza che separa la scrittura di un “Bukowski” da quella di un “Calvino”: niente di tecnico o accademico, solo un’occhiata curiosa e senza pretese al codice che galleggia nella testa di chi decide di scrivere un testo; giusto per provare a rispondere alla domanda di un amico: “Come si sceglie il paradigma narrativo per un opera?”
La risposta: “Dipende dall’intenzione concettuale che determina la volontà di scrivere” non è risolutiva, ma rappresenta un punto di partenza, il livello più basso del codice che orienta il paradigma narrativo. Solo dopo aver esplorato la radice intenzionale del codice potremo tracciare la rotta della nostra storia, pescare i contenuti dai ricordi e dalle invenzioni della fantasia, scolpirne la forma, navigare tra i frangenti dei sentimenti e surfare l’onda lunga della ragione.
Un esempio di codice basale è l’istruzione, talvolta inconscia, che di fronte a un bivio ti fa prendere una strada o l’altra, tendere o ritrarre la mano, chiudere gli occhi o tenerli aperti su quello che la vita mette in campo. Nello specifico della scrittura, la base del codice equivale a una singola istruzione che dice Sì al desiderio di raccontare, alla voglia di spremere uno stato d’animo per estrarne il succo che riempirà il calice d’inchiostro. La scrittura comincia con un Sì, altrimenti il pensiero diverrebbe volatile, un fantasma che si confonderà con i sogni della notte per dissolversi alle prime luci dell’alba.
“Questa la voglio/devo/posso scrivere” è la riga d’istruzioni scritta dalla ragione che oblitera un flusso non codificato di desiderio, non ancora “macchinizzato”, per dirla alla Deleuze.
Perché? Cosa? Per chi? Come? Nella risposta a queste domande si trovano gli attributi portanti dell’opera che scriveremo.
Per quanto mi riguarda, l’intenzione concettuale si traduce nel Messaggio, il mio personale punto di partenza del processo di costruzione di un paradigma narrativo. Eccola di nuovo la punta della piramide rovesciata che caratterizza il codice della scrittura: l’Intenzione concettuale, una declinazione di quel più basso e arcaico Intento che dall’Inconscio emerge come Desiderio di produrre, affermare, negare, trasfigurare il vissuto in immaginato, macchinare pensieri, riflessioni, emozioni, sentimenti, aprire finestre sull’universo e volare in cerchio sulla nostra storia sostenuti dalle correnti ascensionali del concepibile.
Arvales presenta un nuovo intervento: Quando la Brutta diventa Bella: i negazionisti del paradigma narrativo