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Quando la torcia olimpica non basta: le ombre di Sochi

Creato il 04 febbraio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

Sochi-olimpiadi

di Ilenia Maria Calafiore

Mancano pochi giorni all’apertura della ventiduesima edizione delle Olimpiadi invernali a Sochi, un evento che fin dalla scelta della sede nel 2007 – quando la Russia riuscì ad imporre la propria candidatura su quelle di Austria e Corea del Sud – non ha avuto una dimensione esclusivamente sportiva: le accuse per corruzione, per sfruttamento dei lavoratori, per disastro ambientale e per gli alti costi di realizzazione – l’ammontare finale si aggira intorno ai 51 miliardi di dollari, quattro volte di più rispetto alla stima iniziale (12 miliardi) –, insieme con la strumentalizzazione di questioni inerenti la politica interna russa, ne fanno l’appuntamento sportivo con la maggior quantità di polemiche di sempre. E non solo quelle purtroppo: le immagini degli attentati di Volgograd degli scorsi 29 e 30 dicembre sono ancora fresche nella memoria. Per capire il perché del clamore, è necessario partire da lontano e più precisamente dai confini meridionali della Russia, dal Caucaso.

Nel discorso di fine anno, all’indomani delle stragi alla stazione ferroviaria della ex Stalingrado sovietica, che hanno peraltro seguito l’attentato del 21 di ottobre contro un autobus locale che aveva provocato 6 morti e oltre 30 feriti, il Presidente Putin si è rivolto ai cittadini della Federazione affermando: “Chiniamo il capo di fronte alle vittime dei crudeli attentati, e proseguiamo la lotta ai terroristi con fermezza, durezza e coerenza fino al loro completo annientamento”. Il 17 gennaio altre due esplosioni hanno risvegliato Makhachkala, la capitale del Daghestan, proprio mentre Putin ribadiva alle televisioni straniere l’impegno nella lotta contro il terrorismo e mentre il Presidente ceceno, il filo-russo Ramzvan Kadyrov, annunciava l’uccisione di Doku Umarov (notizia tuttavia né confermata né smentita dai servizi russi), noto come il “Bin Laden del Caucaso”, un signore della guerra che da anni si muoveva tra il Daghestan, la Cecenia e il Kabardino-Balkaria portando avanti la guerriglia anti-Cremlino. Salito alla ribalta internazionale nel 2007 quando raccolse il testimone da Shamil Basaev, il padrino del terrorismo ceceno ucciso l’anno prima in circostanze mai chiarite, Umarov fondò l’Emirato del Caucaso, uno Stato islamico non riconosciuto, trasformando di fatto la causa cecena da battaglia secessionista ad una guerra di religione a colpi di attentati sanguinari come quello del treno Mosca-San Pietroburgo del 2009 (28 morti), passando per quello delle “vedove nere” nella metro della capitale russa nel 2010 (38 morti), fino all’attacco-kamikaze all’aeroporto Domodedovo nel 2011 (37 morti). Lo stesso Umarov, nel corso dell’estate, aveva affermato attraverso un videomessaggio che avrebbe impedito “con qualsiasi mezzo” lo svolgimento dei Giochi.

Difficile pertanto non leggere gli attentati di Volgograd come un messaggio politico rivolto alle autorità russe, essendo peraltro Sochi una città dall’alto valore simbolico: capitale storica della Circassia e teatro del conflitto tra Russia e Paesi nord-caucasici tra il 1817 e il 1864, quando le popolazioni locali furono represse e messe in fuga verso i territori dell’Impero ottomano da parte della Russia zarista.

Oltre a Cecenia e Daghestan – salito agli onori della cronaca per essere stata la patria di Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev (i due attentatori di Boston) –, anche altre regioni nord-caucasiche (Inguscezia, Kabardino-Balkaria e Ossezia del Nord) sono da anni teatro di un conflitto a bassa intensità tra le autorità centrali moscovite e i gruppi indipendentisti e, da oltre un decennio, epicentro della ribellione islamista radicale nell’area.

Caucaso settentrionale - Fonte: Stratfor
Caucaso settentrionale – Fonte: Stratfor

In Daghestan lo scontro coinvolge da una parte gli integralisti islamici militanti, e dall’altra il governo, accusato di tenere un atteggiamento troppo “filo-russo” e di non considerare i problemi e gli interessi della regione. Le ultime elezioni tenutesi nel settembre 2013 hanno visto trionfare Ramazan Abdulatipov, figura vicina a Putin, in una competizione elettorale che vedeva già sconfitti in partenza i partiti separatisti. A ciò si aggiunga il ruolo politico giocato da Said Amirov – uomo influente del Daghestan e altrettanto vicino agli ambienti politici e imprenditoriali di Mosca – che ha detenuto la carica di primo cittadino di Makhachkala dal 1998 fino alla scorsa primavera, quando fu arrestato con l’accusa di traffico illegale di armi e per l’omicidio nei confronti di Arsen Gadzhibekov, capo del Dipartimento di Investigazione, che indagava su una serie di reati tra cui l’attentato terroristico di Kizlyar nel 2010. Il problema politico del Daghestan si intreccia con quello della criminalità organizzata, della frammentazione etnica e delle lobby petrolifere, fortissime nell’area; ma l’aspetto cruciale resta quello religioso: vi sono due diverse facce dell’islam presenti nella zona, quello sufico-confraternale, modarato e filorusso, e quello wahhabito-salafita, fondamentalista e violentemente antirusso. E contro quest’ultimo che le autorità di Mosca si trovano a dover combattere.

La Cecenia è forse il territorio più conosciuto di tutta la regione, proprio perché i frequenti attacchi terroristici, spesso tristemente spettacolari, l’hanno portata alla ribalta delle cronache di tutto il mondo. Il conflitto tra la Cecenia e la Russia inizia nel 1991, quando, crollata l’Unione Sovietica, nasce un fortissimo movimento indipendentista che inizia una lotta armata per ottenere la separazione. Il motivo strettamente politico però, si lega anche qui con quello economico: uno dei motivi di forte opposizione rimane quello petrolifero, che vede i ceceni opporsi al controllo di Mosca su oleodotti e gasdotti che passano o dovranno passare in futuro su suolo ceceno. Le strutture che attraversano questa regione – dove peraltro si trovano giacimenti di petrolio e di gas naturale – rivestono un’importanza strategica nella conduzione di idrocarburi dal Mar Caspio al terminal russo di Novorossijsk. Il problema nasce anche dall’atteggiamento ambiguo tenuto dai leader russi, ad iniziare da Eltzin che durante la sua campagna elettorale nel 1990 aveva promesso l’indipendenza della Repubblica, salvo poi tornare sui propri passi ottenuto l’incarico e ritirare l’appoggio ai separatisti. La conclusione di questo primo periodo sarà la Prima Guerra Cecena, svoltasi dal 1994 al 1996, ed iniziata con l’invio di 40.000 soldati russi. Nonostante gli accordi di pace di Khasavyrut, nel 1999 la zona si infiamma di nuovo, trascinando la regione in un secondo conflitto fino all’instaurazione di un controllo diretto da parte di Mosca e dunque di una campagna di guerriglia latente che utilizza il territorio ceceno come base per le proprie attività nello scenario caucasico. Il separatismo ceceno rappresenta in ultima istanza il nodo ideologico degli scontri tra gruppi ribelli e forze di sicurezza russe.

L’Inguscezia, invece, rappresenta un caso un pò diverso dagli altri. Qui il problema è di tipo economico: a causa di una riorganizzazione dell’aerea, nel 1982 migliaia di ingusci dovettero abbandonare il distretto di Prigorodnij, riversandosi sulle altre città. Il già cronico problema della disoccupazione aumentò, portando con sè la conflittualità sociale. A tutto ciò si uniscono coloro che fuggono dall’instabilità cecena, i problemi derivati dallo stanziamento delle truppe russe per combattere il radicalismo ceceno, infine il logoramento della situazione ambientale.

Infine, l’Ossezia del Nord. Il distretto di Prigorodnij è sito proprio in Ossezia, ed è questo il principale motivo di tensione fra le due Repubbliche: malgrado una legge del 1982 vieti agli Ingusci di ottenere permessi di residenza nel distretto, dagli anni Novanta si registrano massicci tentativi da parte di cittadini che tentano di ritornare nella proprie case. Peraltro anche qui si verificano casi di conflitti legati alla causa cecena, come il sequestro della scuola di Beslan avvenuto nel 2004 che vide le truppe russe prendere d’assalto la scuola dove i separatisti ceceni avevano preso in ostaggio maestre e bambini. Il risultato fu drammatico e ben 186 bambini persero la vita. L’Ossezia del Nord deve inoltre fare i conti con la conflittualità latente presente nell’Ossezia del Sud, territorio formalmente facente parte della Georgia. I conflitti relativi al terrorismo, non provengono infatti solo dal Caucaso Settentrionale russo: il conflitto armato tra Russia e Georgia del 2008, che ha portato all’indipendenza non ancora pienamente riconosciuta dell’Ossezia del Sud e di quella dell’Abkhazia, ha permesso la penetrazione di alcune frange estremiste, le quali hanno potuto approfittare della situazione di caos nell’area per inserirsi e radicarsi nei territori.

A complicare il quadro della sicurezza interna russa potrebbe infine inserirsi anche la crisi siriana. Proprio il timore di un possibile contagio islamista nei territori caucasici ha spinto mesi fa il Presidente ceceno Kadyrov ad annunciare in numerose interviste l’addestramento di unità delle forze di sicurezza locali da parte delle unità d’élite russe per combattere i militanti islamici in Siria. Infatti, la guerra civile siriana, l’accertata presenza di ribelli islamisti nelle fila di Jabhat al-Nusra e il timore di una penetrazione e di un radicamento del terrorismo islamista verso l’entroterra russo, hanno convinto Mosca a rafforzare le misure di sicurezza su tutto il territorio e a portare avanti una coerente strategia di counter-terrorism/counter-insurgency soprattutto nei confronti delle cellule salafite lì attive nel timore che il Caucaso e l’Asia Centrale, territori chiave per l’influenza russa nell’area, possano essere nuove mete di conquista del radicalismo islamista. Nonostante la risposta ferrea, la situazione non accenna a stabilizzarsi, mentre si espande a macchia d’olio l’influenza dei gruppi salafiti radicali e wahhabiti.

Allarmi e timori che dunque rievocano a molti gli spettri di Monaco 1972 e a cui non sono rimasti indifferenti gli Stati Uniti che, lamentando a tratti una scarsa collaborazione con l’intelligence russa, hanno messo a punto un piano di evacuazione in caso di emergenza con aerei e navi da guerra stazionate nel Mar Nero e pronti a portare fuori dalla Russia atleti ed altri rappresentanti della delegazione olimpica americana nel caso fosse necessaria un’azione immediata a causa di un grande attentato terroristico. Una preoccupazione, quella per il rischio di nuovi attentati, che assilla anche il Presidente USA Obama tanto che, in una telefonata del 22 gennaio al collega Putin, ha confermato il massimo impegno degli Stati Uniti per garantire la sicurezza dei Giochi.

Per far fronte ai timori internazionali Mosca ha predisposto massime misure di sicurezza: 1.500 unità della protezione civile, 40.000 agenti di polizia, 5.000 telecamere, droni e sistemi di difesa missilistica anti-aerea di ultima generazione (Pantsir-S), metal detector, cani addestrati ad individuare l’esplosivo, nonché il monitoraggio spaziale. A coordinare il tutto ci sarà il servizio segreto russo (FSB) che potrà intercettare tutte le comunicazioni telefoniche e tramite internet e che dispiegherà i suoi agenti sul territorio dentro e nelle immediate vicinanze di Sochi controllando di fatto tutto il traffico in entrata e in uscita dalla cittadella olimpica. L’area di Sochi avrà, inoltre, delle buffer zone e aree a circolazione limitata, mentre costa del Mar Nero sarà presidiata da navi e motovedette.

Basteranno l’imponente dispiegamento di mezzi e uomini e le rassicurazioni del governo a non trasformare il trionfo personale e di immagine di Putin nella sua più grande disfatta politica?

* Ilenia Maria Calafiore è Dottoressa in Comunicazione Internazionale (Università di Palermo)

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