“Questa narrazione semiautobiografica che alterna aneddoti, incontri, congiungimenti di corpi, di dialoghi, di intuizioni, divagazioni fa pensare a Luis-Ferdinande Céline, e forse più al narratore che vive alla giornata di Henry Miller, di cui Busi ha il narcisismo ma non l’ottimismo whitmaniano: le sue relazioni (omo)sessuali risultano inevitabilmente spiacevoli e degradanti, non sono mai oggetto di delectatio morosa come nella scrittura pornografica (e in Miller), hanno bensì una certa meccanicità senza sbocchi, da aneddoto abortito, sono gesti isterici e fantastici di cui ridere, discorso, non realtà. Alla vena diciamo neorealista e a quella dell’io picaresco e narcisista se ne può aggiungere una terza, quella del racconto manierista dallo stile ricercato di cui la letteratura dell’omosessualità offre molti esempi.”
Mi trovo d’accordo con Bacigalupo: il romanzo d’esordio di Busi è in effetti un romanzo di formazione dove esiste anzitutto una forma di narcisismo parossistico che trasmigra addirittura in una narrazione insieme picaresca e postmoderna, con un uso del linguaggio senza dubbio colto, ma vittima di un cesello manierista che imita una letteratura di secoli andati, con l’oggettivo problema di risultare particolarmente artificiosa, ampollosa e inadatta a una sensibilità da lettore di questi tempi.
Busi scrive un romanzo iper-compiaciuto, ricco di personaggi e di sottotrame, complesso e articolato, nel quale respinge a tutta forza i lettori che, incauti, si avviano lungo le sue pagine. Il messaggio dell’autore è chiaro: qui voi, o stolti, non ci potete arrivare. E infatti le uniche parti sinceramente godibili di questo pesantissimo tessuto dalle trame così orlate e riprese sono quelle dove all’autore scappa la volontà di allontanare il disprezzato lettore ed emerge la sua voce sincera, da scrittore di povera fine Novecento. Ma il lettore, calviniamente, ha qui il dovere più che il diritto di saltare pagine e capitoli, di stuprare questo testo nel modo che più gli aggrada. E dunque del romanzo, consiglio la lettura dei soli capitoli “Diario di un barista” e “Altri pantani”, dove il carattere autobiografico è più evidente, così come la voce originale di Busi è più comprensibile e, diciamocelo, godibile.
In generale, è stata una vera sofferenza arrivare alla fine di questo libro. Sarà forse un mio limite di lettore, però rimango dell’idea che si scriva per farsi (intel)leg(g)ere e non per allontanare. E’ inutile denunciare contrarietà verso la mise-en-abîme calviniana e borgesiana per poi riprenderla, sottotraccia, lungo tutto il romanzo. Uno strumento narrativo o piace e si usa, o non piace e non si usa. Usarlo disprezzandolo non fa che attirare incomprensione, se non proprio fastidio.