Succede che d’un tratto o quasi, il finale di un racconto arriva. Sommo gaudio e giubilo! Squillino le trombe! Che i messaggeri diano la lieta novella sino ai quattro angoli del regno.
O no?
Quando tutto va a posto, senza alcuno sforzo, e alla fine si è perfettamente soddisfatti, è il momento di riflettere con una cura ancora maggiore. I finali che si incastonano devono suonare come un campanello d’allarme. Per quale ragione? Be’, nel mio caso tutto era giusto, quindi non c’era nulla di sorprendente.
No, non scrivo mica di azione o thriller, però di solito i finali dei miei racconti dell’oscurità (nel senso che tanto, nessuno li leggerà, quindi è lì che resteranno. Nell’oscurità), li scrivo mentre… li scrivo. Voglio dire: non so mai come va a finire, lo scopro mentre scrivo. Quindi, immagino che il lettore sarà sorpreso quanto me, il finale deve essere un’imboscata. O almeno, provarci.
Dopo nemmeno cinque minuti aveva capito che era un errore clamoroso. Non era il vero finale. Era il mio, non quello della storia. E inoltre, era troppo… ovvio. C’era una specie di sermone, e quando si deve ricorrere a questi espedienti, vuol dire che si è sbagliato.
Show, don’t tell.
Se parli, e ti lanci nel dialogo che tutto svela, chiarisce e glorifica, significa o che non ne hai voglia (allora la storia non ti interessa. Gettala via, o riscrivila da zero), oppure sei arrivato alla frutta. Ci sono molti autori in questa condizione, ma dalla loro parte hanno uffici stampa, critici, case editrici. E per questa ragione continuano a scrivere.
Show, don’t tell.
E allora? Si elimina. dialoghi, pagine, via. Senza rimpianti né dolore. È essenziale non avere fretta, lo ribadisco.
