Anna Lombroso per il Simplicissimus
Nel suo discorso del 22, connotato da una inusuale compostezza che ha fatto pensare all’assunzione di efficaci psicofarmaci o a un provvidenziale effetto paradosso degli ordinari mix cari al satiro per antonomasia, il premier aveva omesso di attribuire la rituale priorità egemonica a quella che chiama inappropriatamente riforma della giustizia e che altro non è che uno svuotamento istituzionale, una pratica repressiva e censoria, insomma l’esuberante disegno dispotico di un golpista senza scrupoli.
Ma la preoccupazione per la valanga di rivelazioni che potrebbe rotolare giù dalla montagna di relazioni illecite, di spacconate infami, di allusioni ed elusioni, di amicizie scellerate, di alleanze fondate sull’affiliazione mafiosa, insomma il timore che perfino per gli italiani apparentemente annichiliti il caso Bisignani sia troppo, ha restituito priorità alla “disciplina” delle intercettazioni.
E siccome l’iperbole è figura cara al premier che ricostruisce l’Aquila in 6 mesi mentre tira fuori dal cappello la cura per il cancro, “libera” Lampedusa in due giorni e crea un milione di posti di lavoro, ecco che attribuisce alle misure di “contenimento” della sciagurata violazione della privacy perpetrata da giudici e media comunisti anche un dirompente costo sociale. Eh si sai quante grandi opere di potrebbero realizzare abbattendo l’edificio di macchinazioni e complotti contro di lui, che nel solo caso Bisignani sarebbero costate allo Stato un miliardo. Sembra di sentir parlare il signor Bonaventura, milioni miliardi trilioni. In realtà proprio il suo delfino nonché incongruo ministro della Giustizia aveva calcolato che la spesa per le intercettazioni ammonta a non più di 278 milioni.
Ma nessuno dei due fa un semplice conteggio di quali ricadute economiche l’uso delle intercettazioni abbia prodotto e possa produrre nella lotta alle infiltrazioni criminali nel tessuto imprenditoriale, nella guerra impari – e poco desiderabile per il governo – all’evasione fiscale, nelle azioni effettuate per circoscrivere la corruzione che innerva i rapporti tra finanza, aziende e pubblica amministrazione.
Al tempo dei post it gialli tornati di moda circolavano gruppi e post in rete che recitavano “io voglio essere intercettato”. Io francamente non arrivo a tanto. Perché penso che si tratti di una pratica poco auspicabile e desiderabile ma necessaria, come le multe, le sanzioni, i controlli, insomma una di quelle componenti della democrazia che non la rendono per questo meno “indispensabile” alla nostra libertà, al nostro vivere insieme, al nostro non retorico essere uguali di fronte alla legge.
Nella rappresentazione “parallela” alla realtà messa in scena dal regime mediatico, si dice che la legge-bavaglio nelle sue varie declinazioni serve a difendere – nell’ordine – la privacy, il diritto di cronaca e infine la funzione investigativa.
E’ chiaramente un artificio, anzi una pura e semplice mistificazione che serbe a occultare lo spirito e la sostanza di un provvedimento comunque liberticida. È vero infatti che occorre garantire un equilibrio fra questi tre diritti costituzionali, ma l’ordine semmai andrebbe invertito o comunque modulato secondo le circostanze, al caso specifico: la tutela della legalità, innanzitutto, come superiore interesse collettivo, poi l’informazione e quindi la riservatezza individuale.
Si, potranno esserci stati abusi nella gestione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, all’interno e all’esterno della sfera penale. Da strumenti d’indagine “straordinari”, spesso si sono trasformate in strumenti “ordinari”; da mezzi di ricerca della prova sono diventate prove in sé. Ed è fuori discussione che bisogna preservare il singolo cittadino dalla “gogna mediatica”, a maggior ragione quando è incolpevole o addirittura estraneo alle indagini.
Per di più siamo in molti ad essere infastiditi dal persistente voyeurismo della stampa che vomita registrazioni non solo penalmente irrilevanti, ma sostanzialmente poco utili anche a rispecchiare uno spirito del tempo. Tanto che adesso la Lega vorrebbe accreditare la percezione che la circolazione di veleni di Bisignani e dei suoi amici sia un fenomeno territoriale, il morbo della capitale infetta che loro frequentano saltuariamente senza esserne contaminati.
Ma invece salvo appunto qualche abuso che va contenuto, le intercettazioni restano assolutamente necessarie nella lotta al malaffare e alla criminalità organizzata, tanto più in un Paese come il nostro contagiato da una corruzione endemica e infiltrato dalla mafia, dalla camorra e dalla ‘ndrangheta.
E non è un caso che un governo dalle alleanze scellerate ne faccia un tema cruciale. Perché nello spirito che ha animato la legislatura tra il 2001 e il 2006 e in quella attuale è diventato lo strumento punitivo più grossolano ma anche più maneggevole per punire la credibilità e l’autorevolezza della magistratura, obbligandola a una guerra di trincea che c’è da temere logori gli stessi giudici. Che, obbligati a difendersi, hanno visto ridursi anche gli spazi di elaborazione culturale necessari a smantellare quel travisamento operato dal regime che vorrebbe accreditare l’attività giudiziaria come contrapposta alla sovranità popolare.
E’ che l’assuefazione all’opacità di questo governo delle nebbie, esige la cancellazione della trasparenza. Non sono la tutela del segreto investigativo e la difesa della privacy i veri obiettivi, quanto piuttosto la protezione dei “giri”, il blackout sugli scandali di regime, il controllo dei giornali e dei telegiornali, la loro già evidente sottomissione al potere politico.
Nel nostro Codice, è già scritto del resto che le intercettazioni devono essere usate con la massima prudenza, solo quando ricorrono gravi indizi di reato e quando sono “assolutamente indispensabili al fine della prosecuzione delle indagini”. Più che punire i giornalisti o sanzionare gli editori di giornali, sarebbe opportuno individuare a monte le responsabilità effettive, impedendo che chi ha l’obbligo istituzionale di tutelare il segreto investigativo finisca poi per violarlo impunemente. Si può anche discutere allora sulla necessità di un Codice di autoregolamentazione in materia, da definire magari insieme ai magistrati, per darsi una disciplina migliore, rispettare ancora di più l’attività giudiziaria e la riservatezza dei cittadini. Non c’è bisogno di aggiungere, di precisare, di limitare. È sufficiente, come sempre, applicare principi di responsabilità. Ma principi e responsabilità sono concetti che non piacciono a un regime che vuole mettere il bavaglio anche alle parole.