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Quanto è solido lo stato di Israele?

Creato il 29 luglio 2014 da Maria Carla Canta @mcc43_

L’operazione Protective Edge che colpisce  Gaza con bombardamenti indiscriminati sta mettendo in luce quello che pochi intendevano vedere. Israele è un patchwork di etnie e di concezioni dello stato sul quale si vuole apporre l’etichetta di ebraico per alludere a un’inesistente omogeneità.

Il venti per cento della cittadinanza è Araba. La maggioranza Ebrea trae le sue origini da varie zone europee e dei paesi arabi (sono note le sommarie denominazioni di askenaziti e sefarditi). Esiste una minoranza etiope, i Falascia, arrivati con l’Operazione Mosè e altrettanti sono in attesa di emigrare in Israele. Forte, invece, la presenza sia reale  -emigrati e persone con doppia cittadinanza-  sia culturale degli Stati Uniti, dove gli Ebrei sono una componente che ha peso nei più importanti ambiti del paese.
L’organizzazione AipacAmerican Israel Public Affairs Committee, esercita un ruolo fondamentale nell’elezione dei presidenti americani, sostiene i massimi livelli politici ed economici della società, o vi è presente con i suoi aderenti. Ciò è normale conseguenza dello spostamento dall’Europa all’America dell’ asse del mondo, attraverso l’emigrazione in massa di personalità del mondo ebraico durante le persecuzioni europee del secolo scorso. [Vedere  Il sostegno a Israele è la “religione civile” dell’Occidente.]

Anche la collocazione regionale crea grandi disparità di visione dello stato. I Coloni sono una forza che il Governo usa e dalla quale è usato per la politica di espansione attraverso un’erogazione di benefici e di tolleranza sui crimini. [Vedere La vergogna dell’Occupazione israeliana: i coloni di Hebron – Al Khalil.] Infine, ad ogni operazione bellica sempre presentata come azione di difesa, accorrono da ogni parte del mondo giovani che lasciano gli studi o il lavoro per arruolarsi nell’esercito dello “stato ebraico”.

Le tensioni conseguenti a tale eterogenea composizione sono nascoste dalla militarizzazione: ogni cittadino ha l’obbligo di prestare servizio militare, sia pure a livelli di carriera diversi per Ebrei e Arabi, e dal controllo dei media. Nel recente caso dei tre studenti ebrei rapiti, ai media fu vietato di diffondere la notizia della morte già avvenuta per poter dar corso alle “ricerche”, in realtà operazioni punitive nei Territori Occupati e preparare il sentimento pubblico all’attacco di Gaza, quella Operation Protective Edge che sta mettendo in luce una frattura a due livelli.

London for palestine

LONDRA

san Francisco for Palestine

SAN FRANCISCO

Sul piano internazionale i pochi media che tirano la volata a tutta l’informazione mondiale sono allineati nel dipingere come “autodifesa” la spropositata dimostrazione di forza. Al contrario, nelle fonti indipendenti si avverte un diffuso sentimento di repulsione. Si constata fra la gente comune e nei social media un sostegno alle manifestazioni pro Gaza tenutesi in molte capitali. Manifestazioni contro le quali a volte è stata esercitata la repressione, come avvenuto in Francia.
Si avverte un collettivo calo di disponibilità verso l’impunità che è stata concessa per decenni a Israele. E’ temibile che della evidente tendenza alla condanna morale della politica israeliana si possano in qualche modo avvantaggiare le correnti razziste e antisemite che in alcuni paesi europei si sono manifestate negli ultimi anni.

La frattura più grave per Israele, però, sta manifestandosi all’interno della società stessa, con fenomeni di chiaro razzismo anti-arabo, mentre più forte si fa l’azione dei gruppi pacifisti e contro l’occupazione dei Territori.

Gli Arabi, nel complesso, e i contestatori della politica di Netanyhau, anche individualmente, stanno diventando oggetto di campagne diffamatorie, minacce, agguati e aggressioni quanto più cresce la loro visibilità. Jews Against Genocide (JAG) ha condotto una manifestazione-funerale per i bambini di Gaza davanti alla Corte Suprema in Gerusalemme. Jewish Voice for Peace ha lanciato una iniziativa nella quale eminenti personalità sono fotografate con un cartello che riporta il nome di un gazawi ucciso. [Vedere #GazaNamesProject by Jewish Voice for Peace.] L’organizzazione religiosa ebraica Naturei Karta contro l’Occupazione e contro la strumentalizzazione dell’Olocausto, organizza rally in varie parti del mondo in solidarietà con Gaza e per la piena sovranità per i Palestinesi; per quanto poco conosciuta da noi, questa organizzazione sottrae allo stato le basi “religiose” e rimuneratrici per il genocidio subito dagli Ebrei, due pilastri della propaganda  governativa.

Negli animi si è risvegliato l’odio ed è stata la gestione di Netanyhau a provocarlo: manipolando l’informazione sulla vicenda dei tre studenti ebrei, accusando immediatamente Hamas sia del rapimento sia dei razzi da Gaza, dove in realtà agiscono altre fazioni armate, e terrorizzando la popolazione della Cisgiordania. E’ molto difficile far rientrare l’odio e riportare il clima a una convivenza accettabile. Nel video che segue un gruppo di fanatici grida slogan, che non si fa fatica ad assimilare al nazismo, contro gli Arabi, prendendo di mira e minacciando di uccisione singole personalità arabe o ebree pacifiste. Manifestazioni di teppisti che gridano slogan “Non resteranno più bambini a Gaza” o chiedono la revoca della cittadinanza agli arabi sono un problema molto più grave per la comunità ebrea e per il futuro dello stato che per il mondo arabo.

L’Iraq e la Siria, trasformate in mattatoi direttamente o con il consenso delle grandi potenze, sono state il bacino in cui le organizzazioni terroristiche hanno fatto proseliti e arruolato combattenti che oggi sono una minaccia reale gravissima per l’intero Medio Oriente.
Su questo sfondo, le fratture interne della società israeliana diventano un fattore di grande debolezza. Per esistere, come stato, Israele deve essere una democrazia fiorente e prospera, nella quale i cittadini, pur vivendo in Medio Oriente, possano avere l’impressione di vivere in modo simile a quello di una qualsiasi grande città europea o americana.  Un’ impressione che persiste solo se c’è pace. Aumentando, anche per la dissennata propaganda a copertura delle azioni belliche, il senso di pericolo i migliori elementi della società potrebbero decidere di emigrare. Le divergenze su come gestire il problema palestinese non potranno che approfondirsi minando la coesione intorno alla narrativa fondante dello stato e alle prassi volute dai governi. Se lo stato non apparirà altrettanto sicuro come in passato, potrà persistere, in un paese dove in ogni famiglia ci sono soldati e riservisti, l’accettazione di una regola militare come il “codice Hannibal“? E’ la regola secondo la quale i soldati israeliani non devono essere fatti prigionieri (fu introdotta per evitare un altro caso Gilad Shalit che costrinse Tel Aviv a trattare con i Palestinesi e rilasciare in cambio della sua liberazione un certo numero di prigionieri) anche se questo significa sacrificare la loro vita. Si veda a questo proposito l’estratto da un reportage sull’ultimo caso, il soldato Guy Levy scomparso durante un’operazione a Gaza,  di Richard Silverstein, ebreo progressista, creatore del sito Tikun olam, dedicato alla risoluzione del conflitto arabo-israeliano.

Dopo l’Operazione Protective Edge e quello che sta mettendo in luce ha senso chiedersi quanto potrà resistere lo Stato d’Israele ai rischi d’implosione, e se per evitare questi rischi vi sia una strada diversa da quella di un serio dialogo sull’agenda Palestinese, a partire dagli insediamenti nei Territori, il blocco di Gaza, la piena parità dei cittadini ebrei e arabi, la soluzione del problema dei Profughi. Non rimane molto tempo.

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