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Quasi un Manifesto Neopittorialista

Da Marcoscataglini
PictureEra da tempo che ne sentivo l'esigenza. Definire il quadro di azione della mia fotografia più personale, e in fondo anche quella di questo sito. Perciò ho scritto, un po' di getto in effetti, una sorta di "Manifesto" neopittorialista, in cui ho riassunto tutto ciò in cui credo e tutto ciò che amo, in campo fotografico s'intende. Non pretendo di avere la verità in mano: è semplicemente il mio modo di vedere le cose, ma spero ci siano persone che possano condivederlo. Ecco di seguito quanto ci tenevo a "dichiarare". Una versione PDF è scaricabile nella pagina "Documenti" di questo sito.
Alfred Stieglitz è stato il grande maestro del Pittorialismo, scuola che solo nella seconda parte della sua carriera ha “tradito” per procedere sulla strada della “Straight Photography”. Questo per dire che il pittorialismo non è solo “flou”, luci morbide e neri profondi (alla Steichen prima maniera, insomma) o soggetti “romantici”.
Il Pittorialismo è stato principalmente un movimento di rivendicazione dell'artisticità e della autonomia della fotografia, sebbene con un sottintesa sudditanza verso la pittura (come il nome del movimento rivela), non si sa bene quanto cosciente.
Da allora la fotografia ha fatto parecchia strada e oggi nelle aste le fotografie delle“photostar” spuntano cifre da capogiro. Si è andati ben oltre la “Straight Photography”: oggi la gamma delle tecniche è amplissima, e prevede anche innovative metodiche digitali che arrivano a fotomontaggi di notevole complessità.
I limiti sono oramai davvero dettati solo dalla fantasia.
Il digitale ha aperto nuove strade e si è affermato nel breve volgere di una manciata di anni. Il digitale ha un grande presente e un radioso futuro. Per ora gli manca un passato. Non tecnologico (basterà pensare alle prime fotocamere digitali, ingombranti e lentissime, per rendersi conto che di materia prima per i musei della tecnologia c'è n'è già parecchia), ma iconografico. Per questo ho deciso di crearglielo!
Quello che faccio, o vorrei fare, è reinventare un immaginario che la fotografia contemporanea, ipertecnologica, non possiede. La gran parte delle mie immagini è realizzata digitalmente (o partendo da negativi rielaborati digitalmente), ma sembra antica, come se nascesse nei primi del '900.
Le textures, il bianco e nero o i colori attenuati, le atmosfere “romantiche”, i soggetti paesaggistici, tutto ricorda certi scatti dei primi decenni del XX secolo, quando ancora la fotografia non era declinata nelle forme del fotogiornalismo o dello strumento per realizzare opere d'arte contemporanea. Era un'epoca in cui la fotografia indagava, invece, la bellezza e la meraviglia di fronte a un mondo ancora poco conosciuto. Era ancora l'epoca del Sublime.
Di bellezza penso che, nonostante tutto, ce ne sia ancora molta, e che attenda solo il nostro sguardo indagatore per rivelarsi: la bellezza salverà il Mondo, se davvero il Mondo potrà salvarsi.
E' questa la mia convinzione e la mia risposta a chi mi accusa di fare una fotografia “poco - o affatto - impegnata”.
Sono convinto del contrario: la mia fotografia è socialmente assai impegnata, soltanto non lo sembra, e questo gli apre porte che altrimenti resterebbero chiuse, così come le menti di certi fruitori.
Non ho una concezione elitaria della fotografia: la comunicazione deve essere facilitata, non complicata da assurdi intellettualismi. La facilità di comunicazione e fruizione -senza che si scada nel banale- veicola messaggi subliminali, legati ad esempio alla necessità di salvare il paesaggio o la biodiversità.
Le mie foto sono scattate con in mente l'iconografia di un tempo, aggiornata naturalmente alla visione del XXI secolo, e debbono essere fruite senza urlare. La fotografia contemporanea considera “piccoli” i formati prossimi al 70x100 cm e normali le metrature stile tabellone pubblicitario: io credo che questo crei una distanza inaccettabile tra opera e fruitore (per apprezzare una stampa del genere nel suo insieme occorre stare a diversi metri di distanza).
Io amo i formati dal 30x40 cm (ma anche il comune 20x30) al 50x70, che considero la mia misura massima. Il pubblico, così, si deve avvicinare alla stampa, notarne letextures, i particolari, sentirla prossima e non distante. Debbono sbirciare piuttosto che guardare! E' un po' come accostare l'occhio al buco della serratura: voglio ci sia la sensazione di star scoprendo un mondo nascosto e misterioso, di cui si sa poco o  nulla, sebbene sia magari appena fuori la porta di casa.  E' la visione del fotografo a creare l'immaginario, non l'esotismo di maniera, o il lungo viaggio (fisico) necessario a scattare la foto.
Nella scelta dei soggetti, dei toni, delle atmosfere mi rifaccio  all'opera dei fotografi diCamera Work e anche alle antiche tecniche, reinterpretate in chiave contemporanea.
E' il mio modo di vedere il paesaggio e gli oggetti che lo popolano, che rende così omaggio ai fotografi dei primordi, ma lo fa solo mimando le loro tecniche e il loro modo di vedere, perché in realtà sfrutta tutte le possibilità offerte dalle moderne tecnologie. E' in questo gioco di rimandi che spero si trovi il fascino e il senso delle mie immagini.
Apprezzo e stimo gran parte dei fotografi contemporanei, ma non amo molto le loro fotografie. Troppo grandi, troppo colorate, troppo concettuali e cerebrali, troppo “taglienti”, troppo tristi, troppo interpretative. Insomma, troppo: io sono per la semplificazione (apparente), per il tornare alle origini senza per questo rinunciare ad essere moderno.
Come amo dire, vorrei dare un passato anche al presente, cioè un tocco di classicità(che definisco Neopittorialista, sebbene i riferimenti pittorialisti siano più citazioni che piena adesione) alla fotografia digitale.
Essendo poi cresciuto all'ombra dei fotografi che andavano per la maggiore negli anni che vanno dai '60 agli '80 e che formavano generazioni di nuovi fotografi attraverso i loro libri di tecnica, come Ansel Adams tanto per citarne uno, sono rimasto ancorato a quella sensorialità che avevano certi volumi e certe guide di qualche anno fa. Ricordo con un velo di nostalgia i libri di Andreas Feininger, dalla cui appassionata e costante lettura ho appreso a comprendere e amare la fotografia. In Italia, i libri di Feininger erano stampati non certo al massimo della qualità. Le foto apparivano come distanti, vagamente indefinite, a contrasto con i testi, in cui si parlava invece di ricerca della qualità e della massima nitidezza! Eppure, quella iconografia mi piaceva, e mi è rimasta dentro. Debbo alla scarsa qualità delle guidine di Feininger (scarsa qualità non certo imputabile all'autore!) la mia passione per la fotografia Lo-Fi. Oggi grazie alla tecnologia digitale mi trovo nella  possibilità di replicare la sensazione tattile di quei libri anni '50 e '60, di ricreare quelle textures visive. Così, ho iniziato a progettare i miei “Lo-Fi Books”, in cui i limiti tecnici divengono un pregio. Io considero i miei LFB dei veri libri d'artista, sebbene il prezzo di vendita sia esattamente “popolare” come quelli di Feiniger.
Sui prezzi di vendita dell'arte si potrebbe discettare a lungo! Trovo insopportabilmentesnob un certo modo di concepire la fotografia artistica, sia che si tratti di artisti che usano la fotografia, sia che si tratti di fotografi dediti al Fine Art.
I prezzi di certe opere (ma direi di certe operazioni), pensiamo a quelle di Andreas Gursky e della Scuola di Dusseldorf (per citare quelli che spuntano il massimo delle quotazioni), sono al limite della follia, a volte ben al di là. Non si tratta, evidentemente, di svalutare le fotografie e l'arte in generale: semplicemente la speculazione non dovrebbe rientrare tra le possibilità offerte all'artista per sopravvivere o addirittura arricchirsi (anche se quelli che si arricchiscono di più sono galleristi, mercanti e case d'asta).
Alle valutazioni economiche si debbono i fenomeni perversi che oramai si sono affermati nel mondo della fotografia artistica e creativa, a cominciare dalle serie limitate, per continuare con i formati sempre più grandi, quasi le foto si dovessero vendere a metraggio! Perché, visto che la cosa forse migliore della fotografia è la possibilità di avere dei multipli (originali) di ciascuna opera, dovremmo ricercare lararità limitando il numero delle stampe? Io credo che le edizioni debbano essere sempre aperte, sebbene numerate e firmate dall'autore, in modo da certificarne l'autenticità.
Il prezzo dell'opera dev'essere giusto. Ma qual'è un prezzo giusto? Quello che si calcola partendo dalla necessità di coprire le spese di realizzazione e aggiungendo poi la cifra sufficiente a  fare in modo che il fotografo possa vivere dignitosamente della propria arte. Come si fa a stimare questo valore? Riconosco che non è sempre facile. Di certo una fotografia può, anzi deve, costare una cifra per così dire importante; nel caso di fotografi famosi trovo normale che si debbano spendere diverse migliaia di euro per una stampa originale o addirittura vintage.
Sicuramente, se si utilizzano tecniche (dalla Polaroid al Transfer, dalle stampe senza negativo alle antiche tecniche come il Dagherrotipo, o alle stampe colorate a mano) in cui non è possibile ottenere multipli dell'immagine di partenza, occorre alzare le quotazioni. Ma lo scopo finale deve essere quello di rendere la fotografia artistica e creativa (nella forma delle stampe d'autore) popolare, accessibile a molti e di prezzo equo.
Pagare milioni di dollari per una foto, oltretutto di un autore vivente, è secondo me una distorsione, legata al mercato, non certo all'arte.

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