‘It was, he says, an intensity of passion such as to startle the world, and perhaps for that very reason it was fated to be brief’ (The Paulownia Court, The Tale of Genji)
Quando iniziai a scrivere questo blog, ormai tre anni e mezzo fa, mi fu suggerito un titolo che richiamava il meraviglioso Comrades, almost a love story di Peter Chan, e lo adottai senza pensarci troppo su. A distanza di tanto tempo mi rendo conto che non avrebbe potuto esserci scelta più azzeccata.
Non saprei descrivere il rapporto che ho con il Giappone senza paragonarlo a una storia d’amore. Un amore appassionato e totalizzante, ma allo stesso tempo reale, concreto, nato da una conoscenza profonda e dallo sforzo profuso nel venire a patti coi difetti dell'altro, investendo risorse emotive senza mai risparmiarmi.
L’amore che strappa i capelli. Quello per cui si farebbero i grandi sacrifici, per cui si è pronti a mollare tutto e volare dall’altra parte del mondo, e per cui a volte si rischia di perdere di vista se stessi. Nel fondo della mia coscienza, però, c’è una vocina esile che dice quello che non voglio sentire. Non funzionerà. Anche nei giorni più felici, anche negli attimi dorati in cui si assapora una gioia da impazzirne, quella piccola morsa allo stomaco non molla e non mente.
È un tormento. È la consapevolezza che stare insieme alla fine mi estinguerà, e allo stesso tempo la certezza che anche se mi innamorerò altre cento o mille volte la mancanza di questo amore non mi lascerà mai, e giorno dopo giorno cercherò inutilmente quel qualcosa.
La cosa più assennata da fare è lasciare andare, accettare che il vero amore non è necessariamente per sempre, abituarsi un po’ per volta all’idea della separazione.
Da molto tempo volevo scrivere questo post, ma solo ora è il momento giusto. Finalmente posso farlo senza angosce, con tutta la serenità che mi è mancata negli ultimi mesi, perché soltanto adesso riesco a vedere me stessa nel futuro, via da qui. Immagino avrete intuito che lascerò il Giappone dopo la fine del corso all’Arc Academy, non perché non sia riuscita a trovare un lavoro che mi procurasse il visto (non ci ho nemmeno provato), ma perché non importa quanto mi mancherà: qui, ora, non è il posto giusto per me. Ci sono tante ragioni, forse ne parlerò più approfonditamente in seguito, ma il nocciolo è che mi sono chiesta tante volte quanto fossi disposta a piegarmi, se sarebbe andato bene costringermi a una vita inadatta a me al solo scopo di essere qui, e dopo averci letteralmente perso il sonno la risposta è no.
Per il dopo c’è un Piano (sì, con la maiuscola, perché la sua nascita è stata la mia rinascita) che mi elettrizza e oltre a tutte le comprensibili incertezze mi riempie di aspettative. Ho la benedizione della mia famiglia e l’appoggio più che entusiastico delle due persone il cui giudizio mi premeva di più, e per ora non scendo nei dettagli perché è ancora tutto in costruzione. Vi accenno solo che non prevede un rientro in Italia, se non per riabbracciare le poche persone che ho voglia di vedere e prepararmi a volare via di nuovo. Quanto mi è mancato guardare al futuro con curiosità e speranza.