Riceviamo dal nostro J. Stronkabook e ovviamente pubblichiamo, perché non siamo mica pirla.
CÈKKICCIÀ 4 SOLICÈKKICCIÀ 4 SÒLE
A 400 giorni dall'uscita del Romanzo "Quattro soli a motore", di Nicola Pezzoli, desideravo proporre e condividere con voi (per farli rivivere a chi li ha letti, per farli desiderare a chi deve ancora farlo) 5 brani fra i miei preferiti del libro. Curiosamente, nessuno di questi è stato mai citato nelle tante bellissime recensioni apparse sul web, che però ne hanno scelti in gran quantità e tutti altrettanto belli. A ulteriore dimostrazione dell'immensa ricchezza e generosità di questo straordinario e originale Romanzo, vero forziere pieno di cose preziose, imperdonabilmente IGNORATO dalla critica italiosa più incallita.
"I magna furmagìtt"
«Non capisco perché te la prendi così» mi fece a un tratto Gianni, squadrandomi con sospetto nell’oscurità di via Roccolo. «Non era mica l’Italia!»Non gli dissi che io per l’Olanda avevo tifato già prima, quando aveva battuto quella che ai miei occhi era solo juventinaglia d’azzurro vestita, introdotta da una mamelata d’inno brutto come il peccato, grazie a due poderose bombe da lontano che avevano fatto fesso Dino Zoff. Anche se Gianni era mio amico, preferii non confessarglielo. Non sono cose che si possano confessare a cuor leggero. Sono cose gravi, imperdonabili – cose per cui potrebbero picchiarti, cose per cui potrebbero chiamarti Scrofa. Anche se sul versante Scrofa con Gianni mi ritenevo abbastanza tranquillo. C’era una specie di tacito accordo, fra noi due: lui non mi chiamava Scrofa, e io non lo chiamavo Spalone. «Insomma che te ne frega» disse, «di quei magna furmagìtt?»Non risposi. Io tenevo all’Olanda per lo sgargiante colore arancione delle loro casacche. Tenevo all’Olanda perché giocavano tutti all’attacco, compreso lo stopper che nelle altre squadre era solo un mastino, uno scarpone, un maniscalco, un rozzo mazzulatore. Tenevo all’Olanda perché già allora consideravo gli olandesi più civili degli italiani. Tenevo all’Olanda per i bei capelli lunghi e biondi che rendevano i loro terzini e le loro mezz’ali simili a guerrieri vichinghi. Tenevo all’Olanda, in ultima analisi, perché la mia era una scelta – una semplice, libera, scelta. E per questo capivo che era meglio star zitto. Però, porcudìghel, io li amavo e stravedevo per loro, e lui, il mio migliore amico, me li chiamava “magna furmagìtt”. Mi faceva venir voglia di chiamarlo Spalone.
"Gelosia"
La decisione era presa: l’avrei sposata, e gliel’avrei messo dentro diciannove volte, e le sarei marcito addosso febbricitante di passione prima di decidermi a tirarlo fuori, e saremmo morti di febbre e di fame noi e i nostri diciannove figli come nei film con gli irlandesi conigli. Ma lei si divertiva a tenermi sulle spine con la tortura della gelosia. Mi raccontava che sul Veneto aveva un fidanzato che la stava aspettando e che si chiamava Alberto, e per farmi impazzire aveva chiamato un pulcino Cristinalbert e io per la rabbia una sera che non mi vedeva nessuno tranne il Cane Nero lo avevo preso a calci sotto il portico e il pulcino era diventato tutto strano e s’era messo a pedalare con le zampette verso l’alto e le orbite come albumi, e io m’ero sentito in colpa e avevo invocato aiuto, “Venite a vedere, il Cristinalbert fa degli strani movimenti”, e il Cane Nero abbaiava così forte che avrebbe potuto ammazzarmi di paura e soprattutto denunciarmi, ma siccome abbaiava sempre così nessuno si accorse della differenza. E poi, per fortuna, il povero pulcinetto che non c’entrava niente e mica lo sapeva di chiamarsi Cristinalbert non era morto e, anche se ci aveva impiegato un po’ di giorni di convalescenza dentro uno scatolone con la paglia, alla fine si era ripreso – che sollievo! – altrimenti sarei diventato non solo un assassino ma un assassino stronzo e vigliacco, che è pure un pochettino peggio. Come un cattivo di Tex che aveva sparato a un pulcino in un ranch per fare il gradasso e dopo Tex quando lo rincontrava lo disprezzava e gli diceva: “Toh, chi si rivede, il giustiziere di pulcini”.
"Un prete poco lucido"
Il fatto di essere non rachitico ma quasi, a propulsione più nervosa che muscolare, aveva completato il mio ridimensionamento.E poi, c’era il fatto che a Cuviago la mia personalità aveva subito il suo bel disinnesco religioso. Sì, perché dovete sapere che a Lavinia la religione era stata soltanto andare a Messa con la mamma ogni sabato sera alla chiesa del Ponte. Dove c’era un prete di duecento anni che stava messo male con la lucidità ma gli lasciavano celebrare la Messa lo stesso perché altri più a posto non ne trovavano. E così questo duecentenne non più molto lucido che però non andava in pensione passava tutta la Messa a barcollare e caracollare e biascicare uggiolii e lamentii e tremolio tremens e frasi incomprensibili che capiva solo lui, sempre ammesso che le capisse. Il momento peggiore era quando se ne stava in piedi per venti minuti di fila a ciancicare e pencolare, e quella era l’omelia o l’omelette che dir si voglia. Durante l’omelia, che sbiascicava a se stesso con vocina stridula e impastata, come se la stesse ripassando mentalmente davanti a uno specchio poco lucido, a un certo punto s’inclinava e pendeva e avevi paura che cadesse ma non cadeva mai, era come l’Ercolino Sempreinpiedi però conciato peggio, e alla fine la mamma diceva sempre Ma poverino, non lo dovrebbero far soffrire così, e io credevo che intendesse abbatterlo come i cavalli feriti nei Tex, e mi rappresentavo la scena, e in fondo non la trovavo neanche poi così tanto sbagliata.L’unico momento bello era se c’erano i canti, perché allora potevo sentire la voce della mamma, così intonata e dolce che certe persone si voltavano a guardare anche se voltarsi in chiesa era peccato.
"Donna o istituzione?"
Ma ancora oggi, se chiudo gli occhi e penso “chiesa”, la prima cosa che mi viene in mente è don Gioele con la sua bellissima voce da baritono, e un brivido mi percorre da capo a piedi nel risentirlo cantare, fremendo di commozione, quella strana, lunga, disperata parola: “Geementesefleeentes…” che sta nel cuore del Salve Regina. Sono sicuro che in quei frangenti, su quegli acuti, lui ci facesse l’amore, con la sua Regina. Guardandolo intuivo che l’amore puro era qualcosa che poteva esistere veramente, che gli angeli asessuati non erano degli esseri con qualcosa di meno, ma con qualcosa di più. Ma gli ignorantoni del paese queste cose non potevano capirle, e spettegolavano che don Gioele si scopava (che schifo) la De Ropp. La De Ropp vista da noi non era una donna, ma un’istituzione come il catechismo, l’acquedotto, il passaggio a livello. Non era roba che si potesse scopare.
"La spugnetta"
Affrontai la scala a pioli esterna e montai su per quella interna. Gianni era già lì che mi aspettava. O forse no, non mi aspettava per niente. Aveva portato con sé una radiolina, piccola e nera, da cui usciva una canzone che faceva grosso modo “Gud babburèscion”. Mi avvicinai a lui. Aveva uno sguardo strano. Una luce malandrina negli occhi. Io non vedevo l’ora di sentire il proseguimento della storia dei dieci pianeti. Mi sedetti poco distante e aspettai che la spegnesse. Ma lui invece del quaderno nero tirò fuori il piccio. Cosa diavolo aveva in mente? Pisciare sul fieno? Però non si alzava a pisciare. Rimaneva seduto. Prese a strofinare, mentre quella cavolo di radiolina continuava a fare Babburèscion Babburèscion, senza molti guizzi di fantasia. Restai stupefatto da quel che stava accadendo. Mica lo sapevo che si potesse fare anche a mano. Io, che della cosa ero un neofita assoluto, quelle poche volte, in gabinetto, sistemavo una spugnetta per terra, mi sdraiavo a pancia in giù, e poi ci davo di addominali. Era più realistico, ma faticoso. Sfiancante. Io con gli addominali ero debole da fare schifo. Forse perché mi nascondevo sempre quando in palestra si facevano determinati esercizi. Finito lo stupore, pensai bene di imitarlo. «Per piacere, metti via quel cetriolo» mi sfotté lui. «Che mi viene da ridere». In effetti le misure non erano comparabili. Io però ero più piccolo di un anno, e a quell’età un anno fa tutta la differenza del mondo. Il bagno me lo faceva ancora la mamma, e quando me lo lavava lo chiamava Pirillino, e io non ci trovavo niente da obiettare. Però non ci pensavo nemmeno, a quel punto, a rimetterlo via. La faccia di Gianni si faceva sempre più stranita. Era come se stesse guardando un film che gli piaceva ma gli metteva paura, e continuava a darci dentro di polso. Non capivo perché invece di metterlo via non mi avesse chiesto di andare via. Non erano cose da farsi in privato, quelle? Credetti fosse una cosa che aveva inventato lui, che fosse il primo al mondo a sperimentarla, e per la prima volta. Io come ho detto mi rinchiudevo e mettevo la spugnetta rosa per terra e me la scopavo. Poi la risciacquavo ben bene. Di certo non avevo mai creduto potesse essere una cosa per comitive. Anzi. Le poche volte che m’ero dato da fare a mettere incinta la spugnetta, ero convinto d’essere l’unico al mondo in preda a tali perversioni, e dopo, ogni volta, promettevo a Dio di non caderci mai più.
E ora, in regalo per voi, un po' di "oggettistica" del romanzo. Stavo per aggiungervi le fotografie di qualche location, ma poi ho deciso di non farlo, per non interferire con le vostre fantasie di Lettori e con le magie evocative della Parola Scritta.
Il libro di Saki
La cartolina del signor Vecchio
La Ciopy
Il Salve Regina di Francesco Suriano
Che altro dirvi, miei cari? Non fatevi sfuggire, e non fate mancare ai vostri amici, la magia di Quattro soli a motore. E alla larga, nello scegliere i regali, dalle solite quattro sòle!Con affetto,J. Stronkabook