La conobbi un sabato d’autunno, si presentò con una scarpa di un colore e una di un altro, a piedi trainando una bicicletta e con i ricci al vento. Mi fece conoscere la Milano che non avevo mai visto, mi portò a teatro a sentire un concerto meraviglioso, mi ospitò a casa sua per una notte, mi presentò il suo dolcissimo cane e mi riportò alla stazione in motorino, sfrecciando nel traffico come fosse a Saigon.
Lei è Gloria Vanni di LessIsSexy e questa è la terza tappa del suo blogtour, nato per promuovere l’ebook “Il capitale umano, ospiti e idee #LessIsSexy”. Frutto del suo sogno di fare rete, l’ebook contiene 30 guest post di ospiti che condividono il piacere di raccontare e raccontarsi. Ci sono anch’io e puoi scaricarlo qui.
Esperta di benessere e sostenibilità, in questo articolo scopriamo che anche le giornaliste hanno un cuore. Sì, perché Gloria ha deciso di raccontarsi in un guest post per Amori in Viaggio…
Chiudo gli occhi, sposto le lancette dell’orologio e torno indietro di uno, due, tre… 15 anni! A quel 1999 che va verso le tecnologie virtuali e io sono un inviato di vita reale tra i sapori e le tradizioni della Terra.
Sono gli anni più belli della mia professione come giornalista con la qualifica di “inviato speciale”. Scrivo di cibo e specialità gastronomiche e, pur di viaggiare, mi invento servizi in qualsiasi angolo del mappamondo. Reportage, testo e foto, con protagonisti come lo zucchero di canna a Mauritius, il caffè in Brasile, il cacao in Madagascar, l’avocado in Spagna, i chiodi di garofano in Tanzania…
Esplorazioni che fermo con diapositive, carta e penna. Nelle mie tasche non c’è traccia di cellulare: Internet è per me un illustre sconosciuto e un bebè in Italia dove non c’è ancora traccia di euro.
Tutto inizia sempre da una domanda: per esempio, dove nascono i migliori chiodi di garofano al mondo?
A sei gradi sotto l’equatore, a Pemba, isola nell’Oceano Indiano distante dalla sorella maggiore Unguja che noi moderni viaggiatori chiamiamo Zanzibar. E così Zanzibar diventa il nome di un arcipelago, di un’isola e di una città che in realtà si chiama Stone Town.
Salgo sulla nave che mi porta a Pemba, mi guardo attorno e noto che sono l’unica donna non di colore a bordo. Un pensiero che mi (ri)attraversa quando giro per l'”isola verde” dove una donna bianca è un’attrazione.
Scendo dal traghetto al porto di Mkoani con Charlie, giovane collega tanzaniano, corrispondente per una importante agenzia internazionale, in missione per le prossime elezioni politiche. Ci conosciamo in navigazione.
Lui viene verso di me a poppa, due sorrisi e ci presentiamo. Pur con obbiettivi diversi – lui le elezioni e io i chiodi di garofano -, stiamo entrambi tre giorni a Pemba. È quindi normale aiutarsi, tanto più in un’isola lunga 68 chilometri e larga 23 dove pochissimi parlano inglese oltre allo swahili (o kiswahili), lingua che io non so.
A Chake-Chake, cittadina che faccio fatico a chiamare capitale dato l’esiguo numero di abitanti e abitazioni, ci accoglie l’unico albergo per stranieri, il Pemba Crown Hotel.
Devi sapere che nell’anno del Signore 1999 siamo molto lontani dall’attuale Pemba, meta ricercata da viandanti che si rifugiano in villaggi e lodge a numero chiuso, coccolati dalla natura e dai suoi tesori. Come il rumore delle onde dell’Oceano Indiano, unica colonna sonora.
Dove fai passeggiate per scoprire i tesori temporaneamente abbandonati dalla bassa marea. Dove le distanze si misurano in colline: «Si trova a due colline da qui» è la risposta che si riceve quando si chiedono indicazioni lungo l’unica strada di Pemba.
Così, dopo una prima giornata di lavoro, ci ritroviamo con Charlie di fronte a birra, pollo e verdure assaporati tra chiacchiere, polvere e stanchezza.
Per la prima volta sono contenta di non essere sola. Adoro viaggiare sola, tanto più per lavoro. La sua dolcezza e la sua premura mi conquistano, ho la sensazione che la piacevolezza sia reciproca. Vado a dormire nella mia camera, spartana con bagno a vista, con il suo sorriso.
Mi sveglio all’alba e con Charlie andiamo verso Konde, villaggio quasi all’estremità settentrionale di Pemba dove si concentrano le piantagioni di chiodi di garofano. Donne e bambini si arrampicano leggeri su alberi diritti come colonne e depositano nei loro cesti i boccioli verdi o rosa: diventano rossi quando i fiori si schiudono.
Gli uomini si occupano della separazione dei gambi dai boccioli, ottenuta sfregandoli tra le mani, e della successiva essiccazione al sole. Operazione eseguita di fronte alle case e lungo la strada che si trasforma in un profumato puzzle verde, giallo, arancio, giallo, marrone.
Forse è il profumo inebriante dei chiodi di garofano che invita Charlie a sorprendermi dietro a un albero con un bacio. Cui ne segue un altro e, poi, un altro ancora. E così è per il giorno e mezzo e la notte che trascorriamo insieme a Pemba.
Poco meno di 36 ore si dilatano in un presente fatto di sguardi, carezze, abbracci, mani intrecciate e gesti che ti fanno vivere il momento come se fosse un eterno “per sempre”.
Non c’è un per sempre tra noi, lo sappiamo. Ci salutiamo, un bacio ancora e arrivano i bambini sulla spiaggia. Corrono, ridono e qualcuno mi saluta con “karibu”, benvenuto. Non sanno che è l’ora della partenza ed è tradizione dire “jambo”, ciao.
Ripercorrere i giorni a Pemba, scoprire che ricordi ed emozioni vivono dentro di me negli anni che passano è un altro dono della vita: sono i miei preziosi frammenti di #CapitaleUmano! Ti ricordo sorridente e spero che tu lo sia ancora: jambo, Charlie!
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