“Accrescendo i bisogni inutili, si tiene l’uomo occupato anche quando egli suppone di essere libero” recitava Montale nel suo saggio “Ammazzare il tempo”. Era il periodo del boom economico, la piccola e media industria fioriva di un nuovo spirito che sapeva di innovazione e progresso, il popolo iniziava a respirare e potersi permettere un’automobile e la televisione. Con poco si passavano le giornate, cogliendo con molta più voracità ed essenzialità la vita. Il consumismo e l’era moderna hanno spazzato via l’autenticità delle cose. Sommersi di cose inutili, che hanno una durata limitata nel tempo, che inventano un bisogno e creano necessità sterili.
Come quando scendi dal treno a Milano e sei sommersa dalla corsa inevitabile di chi cerca di arrivare puntuale, tutti con un telefono in mano, un orologio al polso e una valigetta. Tutti che corrono senza prestare attenzione se calpestano i piedi a qualcuno, tutti incentrati su se stessi, evitando qualsiasi contatto con il mondo esterno. E così il nostro febbrile consumo di tempo assume i connotati inquietanti di un’anestesia di massa, di uno stravolgimento degli scopi e del destino della vita umana. Riempiamo le giornate arrivando esausti a sera, impegni, appuntamenti che distolgono l’attenzione da noi stessi e da quell’inevitabile necessità di guardarsi dentro. E scriveva Montale qualche riga dopo “E poiché pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto, ecco la necessità sociale di fare qualcosa, anche se questo qualcosa serve appena ad anestetizzare la vaga apprensione che quel vuoto si ripresenti in noi.”
Bisogno. Parola che non ho mai amato, perché trasmette dipendenza. Tangibile e reale è che siamo circondati di soprammobili, di oggetti inutili che riempiono i vuoti. E bisogno è ciò di cui non puoi fare a meno, perciò diventa una malattia non viversi i momenti veri ed essere nascosti dietro ad uno schermo che ti lobotomizza, me compresa. Diventiamo tutti dipendenti e schiavi di un cellulare, della televisione, di Internet. Come una cara amica scriveva qualche tempo fa, di tutte quelle applicazioni che non ti permettono di sbagliare o che non ti fanno assaporare il gusto di cercare una strada, di perdersi, di usare la penna e la carta quella vera invece che una tastiera.
Gabbie come trappole per nuvole (Andrea Bianconi, Traps for Cloud)
Ditemi se queste non possono essere definite gabbie. Gabbie costruite da noi stessi, comode e confortevoli nelle quali abbiamo tutto quello che ci serve, delimitato da confini e definizioni che ci fanno sentire meglio e al sicuro. Gabbie attraverso le quali ci sentiamo protetti, dentro le quali troviamo riparo e ci nascondiamo. Appena usciamo pero’ veniamo travolti dal mondo fuori, non più abituati ad una forma di contatto vera.
Così le sigarette, il cibo, un cellulare, una persona possono diventarti essenziali come l’aria che respiri. Tutte forme di dipendenza che considero gabbie. Bisogna solo avere l’onestà intellettuale di riconoscere quella gabbia che ti costruisci giorno dopo giorno e avere il coraggio di distruggerla per poter costruire qualcosa di molto più vero: iniziarsi ad aprire al mondo vivendosi anche quei vuoti di cui Montale era tanto spaventato.