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Quel che la scienza “spiega” e…che lo scientismo non sa

Creato il 01 giugno 2012 da Uccronline
    di Giorgio Masiero* *fisico e docente universitario    Nel dialogo platonico “Teeteto”, Socrate richiama il mito di Iride, dea della conoscenza e figlia di Taumante, dio dello stupore, per fondare su questo sentimento umano l’origine della filosofia e della scienza: “Teeteto: Sono straordinariamente meravigliato di quel che sia l’apparirmi davanti di tutte queste cose; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini. Socrate: Amico mio, è proprio del filosofo quello che tu provi, di essere pieno di meraviglia; e chi disse che Iride fu generata da Taumante non sbagliò”. Lo stupore è un grande turbamento dell’anima: davanti ad un evento inatteso e meraviglioso, perdiamo la consueta consapevolezza e andiamo in estasi (“ec-stasis”, in greco: uscire da se stessi). Lo stupore è forse la prima sensazione provata dalla coscienza confusa d’un infante che s’interroga: perché? Poi, man mano che la visione della cornucopia del mondo si accresce nel bambino, i perché diventano sempre più frequenti. Solo col passare degli anni ed il sopraggiungere degli affanni nell’adulto sfumano nell’assuefazione o degradano nella noia, salvo riapparire di tanto in tanto. I veri filosofi e scienziati, però, si affacciano ogni giorno alla finestra del mondo con gli occhi dei bambini: non si abituano mai allo spettacolo policromo dell’essere, né si accontentano di contemplarlo, ma vogliono conoscerne le cause; ed hanno sete di sapere i fini che si posero quelle cause; e perché quei fini e non altri… “Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire” (Qohelet). Gli scientisti invece, sono quelli che non si meravigliano davanti a nessuna meraviglia. Con una scrollatina di spalle ti dicono: “E beh? La scienza, prima o poi, spiega tutto”. L’handicap di non provare stupore non è necessariamente uno svantaggio competitivo nel mercato del lavoro: può aiutare in una carriera di tecnico specializzato o all’opposto nel ruolo di tuttologo incensatore della scienza onnisciente e onnipotente. La scienza “spiega” tutto? Il dizionario Sabatini Coletti definisce la spiegazione come “chiarimento di ciò che è oscuro o difficile da comprendere”, ed è quello che intende ogni persona quando, davanti ad un evento che non capisce, dice: “Spiegami!”. Una spiegazione, perciò, è una successione di ragionamenti che, di passo in passo, riportano ad assunzioni intuitive ciò che a prima vista non si capisce. Il modello insuperabile di spiegazione è quello matematico di dimostrazione (dal latino de-monstrare = far vedere bene), applicato sistematicamente da Euclide nei suoi “Elementi” di geometria (IV-III sec. a.C.). Euclide prese sul serio i criteri scientifici dettati da Aristotele: “Tra i possessi del pensiero con cui cogliamo la verità, alcuni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l’errore; tra questi ultimi sono l’opinione e il discorso, mentre sempre veraci sono la dimostrazione e l’intuizione, e non sussiste alcun genere di conoscenza superiore alla dimostrazione se non l’intuizione. L’intuizione dovrà essere il principio della dimostrazione, e quindi di ogni scienza” (“Analitici secondi”). Euclide pose perciò all’inizio della sua ricerca scientifica sulle proprietà dello spazio alcune assunzioni (postulati), dettate dall’intuizione e chiare come la luce del sole, e ne dedusse passo a passo le conseguenze logiche (i teoremi, dal greco theoréo = vedo), la cui verità risulta inizialmente oscura alla mente, ma che alla fine del percorso dimostrativo si “contempla”. Prendiamo il teorema di Pitagora: “Nei triangoli rettangoli il quadrato dell’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati dei cateti”. Quando da bambini l’abbiamo udito per la prima volta abbiamo provato stupore, parendoci una bella coincidenza che tutti i triangoli rettangoli godessero di quella proprietà. C’è gente che non ne coglie l’evidenza e lo accetta soltanto perché sa che c’è una spiegazione nei libri di matematica. Però, davanti alla tassellatura rappresentata nella figura qui sotto, tutti ne contempliamo la verità in 3 passi logici di somma e sottrazione di 3 coppie di triangoli uguali. Ecco, le spiegazioni in matematica coincidono tutte con procedure simili a questa di risalire per piccoli passi a postulati  “che sono insiti nella ragione umana in modo naturale e constano essere verissimi, al punto che se li ritenessimo falsi dovremmo rinunciare a ragionare” (Tommaso d’Aquino, “Contra Gentiles”). Nelle scienze naturali, però, il vocabolo “spiegazione” assume significati del tutto diversi dall’ideale matematico. La sua applicazione diviene così tecnicistica in ogni disciplina, che spesso le spiegazioni degli esperti sui fenomeni che interessano la gente (dalla meteorologia alla medicina alla finanza, ecc.) li rendono ancora più oscuri al profano. Prendiamo la fisica: qui la spiegazione d’un fenomeno avviene con la sua descrizione matematica, un’equazione. Per spiegare la gravitazione, Newton propose l’equazione: f = G × m1 × m2 : r 2 L’equazione uguaglia la forza di attrazione tra due corpi al prodotto delle loro masse moltiplicato per una costante G e diviso per il quadrato della loro distanza. Questa equazione spiega perché una mela cade per terra? Neanche per sogno, e Newton era il primo a saperlo rispondendo a chi lo interrogava: “Hypotheses non fingo”, io non fabbrico ipotesi. (Tra parentesi: avessero l’umiltà di Newton gli sbruffoni cantatori di storie di tanta “scienza” moderna!) L’equazione dice soltanto che c’è una forza che fa cadere la mela (e ciò sa anche l’animale che scuote un albero per raccoglierne i frutti) e quantifica la forza, così che la possiamo calcolare quando vogliamo, dalle traiettorie balistiche ai moti celesti. Questo è tutto con la cosiddetta spiegazione scientifica. Ma la teoria newtoniana non può spiegare perché l’equazione ha quella forma, perché contiene il quadrato (e non il cubo o la radice quadrata) della distanza, né perché G ha il valore 6,67 × 10-11, perché c’è una forza tra due corpi indipendente dalla loro costituzione materiale, perché è attrattiva piuttosto che repulsiva, come si propaga, ecc., ecc. Le grandi teorie della fisica moderna (la gravità generale e la meccanica quantistica) poi, svuotano ulteriormente il significato comune di spiegazione poiché, oltre ad esprimersi con equazioni di forma inspiegabile contenenti costanti di valori inspiegabili, si fondano per giunta fin dalle loro assunzioni (arbitrarie) su concetti oscuri e contro-intuitivi (varietà curve pseudo-riemanniane, onde-particelle, spazi vettoriali complessi ad infinite dimensioni, ecc.) che non hanno relazione con l’esperienza ordinaria e che soltanto mediante esercizi di training autogeno gli “adepti” (gli aspiranti fisici) si abituano a maneggiare. Quando in un articolo ho spiegato le onde elettromagnetiche con un “campo tensoriale 4-dimensionale di ordine 2 antisimmetrico”, un lettore commentò: “Mai sentito. A naso potrei pensare ad un miscuglio di parole dotte privo di significato. Spiegami”. Che altro potevo fare se non rinviarlo ad un corso di geometria differenziale? Questa è la situazione della fisica che, nell’ottica riduzionistica che fa da sfondo oggi al naturalismo, è la scienza fondamentale cui tutte le scienze vanno ricondotte. Nella stessa concezione, quindi, non migliore è la potenza esplicativa di tutta la scienza moderna. La biologia per esempio, di fronte al problema della vita, deve spiegare la creazione locale di ordine dal caos, che allo stato delle osservazioni scientifiche (e al netto di fantasie aliene) è la stupefacente eccezione presente in un pianeta appartenente ad un Universo, dove la regola è ovunque l’opposta come sancita dalla “legge più importante di tutta la scienza” (A. Einstein): la crescita dell’entropia che definisce la freccia del tempo. Concediamo pure al riduzionismo che una seria teoria fisica, affrancandoci dall’affabulazione ingenua del darwinismo, riesca un giorno a descrivere il meccanismo della vita. E allora? Ci troveremo nella stessa situazione delle altre teorie fisiche: di sapere descrivere tramite un sistema di equazioni “come” (hanno avuto origine le specie sulla Terra), ma di non sapere il “perché” di quelle equazioni, di quella forma e con quelle costanti. È il limite fisiologico delle spiegazioni scientifiche, per definizione di metodo galileiano, cari lettori! Certo, io sarei il primo in questo caso a cantare un successo epocale dell’interdisciplinarità tra fisica e biologia, a prevedere anche nuove applicazioni tecnologiche a vantaggio dell’umanità, ma non direi mai che con ciò la scienza “spiega tutto”. Al contrario, volgendomi alla sua storia, mi aspetterei l’insorgere di nuove domande di fronte al mistero dell’essere, arretrato ad ogni nuova scoperta solo d’un passo. C’è sempre la Endlösung di spiegare il molto postulando il tutto: è la congettura d’infiniti mondi disgiunti con tutte le leggi possibili, con tutti i valori di G e tutti gli esponenti di r. In uno di questi mondi “la Luna è fatta di formaggio erborino” (S. Hawking). Però – mentre al lavoro interrogo gli annoiati erranti del multiverso sulla potenza esplicativa d’una proposta che, postulando più assunzioni dei fatti che intende giustificare, supera il record bijettivo della “Teogonia” di Esiodo (dove ad ogni fenomeno naturale corrispondeva una sola divinità) – alla pausa pranzo lascio tali sogni ai cultori di Gorgonzola del nostro unico Universo reale. Se sono chiamato a sciogliere un groviglio, per il suo invincibile filo tagliente io mi affido al rasoio di frate Occam: “Non moltiplicare gli elementi oltre il necessario”.

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