Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)
di Giuseppe Panella
Dolce maestra di poesia. Annalisa Macchia, La luna di Cézanne, prefazione di Plinio Perilli, Napoli, Kaírós Edizioni, 2008; Annalisa Macchia, A scuola di poesia. Per capirla, per spiegarla, per scriverla, per amarla, prefazione di Franco Manescalchi, Firenze, Florence Art Edizioni, 2009
La luna di Cézanne è del 2008 – un libro di liriche e di emozioni trasformate in scrittura che arriva come un colpo di scena ben orchestrato dopo molti anni d’attesa. Certo nel 2004 era uscito, per la Casa Editrice ETS di Pisa, La stanza segreta, una raccolta ben orchestrata di liriche e di abbozzi poetici ben ripiegati all’interno di una soggettività mai doma e qui esibita con fierezza come con modestia e pudore, ma l’Autrice sembrava, in realtà, consegnata a tutt’altro destino. Dopo un’eccellente ricostruzione storica quale era stata la ricerca su Pinocchio in Francia (pubblicata nei Quaderni della Fondazione Nazionale “Carlo Collodi” a Pescia nel 1978) e proseguimento ideale della sua tesi di laurea, Annalisa Macchia sembrava interamente destinata alla letteratura per l’infanzia e ne fanno fede alcuni suoi piccioli libri come La gattina dalla coda blu, La formica giramondo, Il fantasmino, Il pesce palla e la nave pirata (Firenze, Piero Chegai Editore, 2002) e Mondopiccino (Firenze, Florence Art Edizioni, 2004). Il precedente libro di liriche, di conseguenza, sembra costituire un unicum e non l’inizio di un nuovo (e più ricco) percorso.
La luna di Cézanne, invece, e per fortuna (si viene tentasti di dire) appare subito, anche a una prima lettura a colpo d’occhio, come il libro della maturità poetica acquisita.
Lo definisce tale, fin da subito, anche il prefatore Plinio Perilli che ottimamente ribadisce:
«Il tempo liquido ha ora insegnato alla Macchia toni, morbidezza e maree liriche (più o meno come dovette fare con certi pittori impressionisti, Monet su tutti). Dipingere quel tempo liquido, e quella luce liquida – farsi liquidi, liquidare parole… Finalmente Annalisa Macchia è uscita dalla sua Stanza segreta, forse dal bozzolo educato e serico della sua crisalide, ed è sfarfallata via ben munita di ali, fervida voglia di volo. Quest’ultima raccolta – netto passo avanti, per non dire provvido, ispirato cambio di stato – subito esordisce con una sorpresa piacevole, un poemetto incalzante Sulle forme del mare: ritmato, esaustivo, vorticoso e denso, fecondato di immagini e trasalimenti, sospensioni e ininterrotta fluidità sentimentale, che resta forse la cosa migliore che Ella abbia mai scritto» (Annalisa Macchia, La luna di Cézanne cit., p. 6).
Se si va a leggere la lunga suite tra il musicale e il sensuoso dedicata al mare e all’abbraccio attonito e rinfrancante con esso, si scoprirà ben presto e con un trasalimento di piacere come il poetare di Annalisa Macchia sia un omaggio alla capacità di aderire al mondo liquido delle parole utilizzandone quelle giuste:
«3. Immersi i nostri corpi. / A traslucidi tocchi / offrono la pelle. / Vittorioso contatto / di dita strette a dita. / Resistente la presa / alla spinta contraria / dell’onda, / docile al riflusso / che l’uno verso l’altra / sospinge. // Assordante il cuore del mare / quando l’abbraccio / toglie il respiro // […]
17. Cede al fascino del gorgo / della possente onda arricciolata / l’anima. / Lento feroce dilavare. / Toccato il fondo / spurgata / si fa carezza il vortice / certezza l’oltre / che la sfiora» (Annalisa Macchia, La luna di Cézanne cit ., p. 21 – p. 35).
L’epopea del mare e delle onde che lo attraversano e lo segnano in superficie e in profondità come forme translucide della sua anima ritrova nelle sequenze descrittive di Annalisa Macchia il suo climax sognante e coinvolgente. La presa di possesso dei corpi segue nella dinamica poetica del poemetto all’afflato sentimentale che spinge verso l’abbraccio con il mare.
Ma dove il testo diventa davvero potente nel suo pathos primigenio di confronto con il mondo dell’arte e, nello stesso tempo, dei sentimenti umani è nel testo omonimo che dà il titolo alla raccolta, omaggio e, nello stesso tempo, ricreazione del mondo dell’artista amato:
«La luna di Cézanne. Una scacchiera di finestre chiuse. / Taglia di sghembo, un lucernario, / il livido triangolo del tetto. / Bianca, si riversa la luna / sul perimetro del letto / dove, in diagonale, supino / dorme un vecchio. // Coni di luce artificiale / moltiplicano cerchi sulla mano / sul libro abbandonato. / Spigoli vivi nel costato / appena muove il petto. // Senz’anni, senza affanni, / una presenza lieve sfiora i capelli, il volto / dilavati. / Raccoglie, sospinge / traiettorie senza fine / tra i quattro lati di un argenteo vetro» (Annalisa Macchia, La luna di Cézanne cit. , p. 65).
Cézanne non ha mai dipinto un paesaggio lunare (la sua ispirazione era principalmente solare, legata alla luce del mattino e del meriggio e ai colori che essi permettono di intingere e portare sulla tela). Ma qui Annalisa Macchia inventa una sua possibile tela “finale”, un suo possibile epilogo come pittore e come uomo. Cézanne termina la sua grande carriera di pittore con un dipinto illuminato dalla Luna in una dimensione di estremo abbandono e di pacificazione finale (ne conviene anche Perilli nella sua ottima prefazione in cui utilizza anche la magistrale testimonianza critica di un poeta come Alfonso Gatto riguardo il pittore francese).
Ma non si finisce qui. Nato come progetto di avvicinamento alla poesia per alunni diversamente abili all’interno di una scuola (l’Istituto Professionale Alberghiero di Firenze), A scuola di poesia è diventato poi tutt’altro. Scrive il predatore Franco Manescalchi:
«In conclusione, in questo libro davvero inusitato, la poetessa presenta la registrazione del suo laboratorio con i ragazzi e – a seguire – i vari modelli di composizione poetica, da lei ricomposti per esemplificare le forme del fare poesia come nel tempo si sono evolute, testi in cui l’aspetto ludico e quello virtuosistico si fondono perfettamente. E, più che un prontuario di scrittura, vuole essere un documento con da un lato la tecnica e dall’altro l’esperienza; un suggerimento, se vogliamo, a mettere alla prova i propri mezzi, a rivisitare le tecniche e a confrontarsi sulle modalità di uso e sulle finalità della poesia nella scuola. Molto liberamente, “un invito alla lettura” per trarne stimoli dialogici e maturare quesiti sulla crisi dell’umanesimo e sulla sua necessaria rigenerazione nella pratica di laboratorio. Una cosa è certa, Annalisa Macchia mostra anche in questo libro il garbo naturale di una scrittura e di una proposizione vive in sé e prive della supponenza di chi impone al di sopra delle cose. Nel susseguirsi delle pagine si ha la conferma che il piacere dello scrivere e del leggere coincidono nella dimensione unica della poesia in divenire»
(Annalisa Macchia, A scuola di poesia. Per capirla, per spiegarla, per scriverla, per amarla cit., p. 10).
Nella prima sezione del libro, quattro studenti (Fabrizio, Marilena, Enrica e Karim) prendono confidenza con alcuni testi poetici della modernità (da Ungaretti a Sandro Penna, da Rimbaud a Prévert, Dino Campana a Caproni, da Camillo Sbarbaro a Elio Pecora) con una breve incursione nel mondo del Dolce Stil Novo (Perch’ i’ no spero di tornar giammai, ballatetta in Toscana di Guido Cavalcanti). Sulla base di queste letture, i quattro ragazzi scrivono dei testi poetici (o che essi ritengono tali) utilizzando quelle provocazioni e quelle prospettive di scrittura che hanno ricavato dalle letture fatte. Alla fine delle lezioni di poesia, tutti, chi più chi meno, saranno consapevoli della bellezza dell’uso creativo delle parole.
Nella seconda parte, invece, intitolata I fondamenti della poesia, vengono presentati e riproposti i diversi modelli di forme metriche più usate nel passato e ancora adesso utilizzate anche in contesti di verso libero.
«Nella poesia della nostra tradizione, strofe e versi regolarmente rimati davano origine a componimenti poetici riconoscibili con facilità dalla loro struttura, esattamente come nella prosa si distinguono i diversi generi letterari. Molte di queste strutture sono ormai cadute nel mare dell’oblio, ma anche le più note e a lungo sopravvissute come la canzone, la ballata, il sonetto, il madrigale, la sestina, se non proprio in un mare, davanti agli occhi dell’ultima generazione, si stanno dibattendo in pozzi più o meno profondi. Un vero peccato. Con le seguenti composizioni, che mi sono divertita a modellare seguendo le regole e gli schemi in voga nel passato, ho inteso soprattutto gettare un’ancora, un appiglio a queste povere forme sempre più sconosciute. Ad una lettura fatta secondo i criteri attuali, possono suonare stranamente ai nostri orecchi frastornati, ma, in realtà, sono un prezioso e irrinunciabile patrimonio della nostra tradizione poetica»
(Annalisa Macchia, A scuola di poesia. Per capirla, per spiegarla, per scriverla, per amarla cit., pp. 53-54).
Facendo accedere chi tradizionalmente ne è rimasto fuori perché pensava che fosse inaccessibile o troppo noiosa (come Hans Magnus Enzensberger e Alfonso Berardinelli si sono chiesti in un loro libro recente – Che noia, la poesia. Pronto soccorso per lettori stressati, Torino, Einaudi, 2006), Annalisa Macchia riapre il discorso sulla popolarità della poesia in Italia e sulle sue possibilità residue. Si tratta di un lavoro questo che, oltre a dirla lunga sulle sue capacità didattiche, illustra e mette in evidenza l’altro lato delle sue potenzialità liriche. Permette, in sostanza, di conoscerla come una dolce maestra di poesia che incanta i suoi allievi e con il tocco leggero della fantasia gli permette di passare in un mondo in cui la vita si colora di un diverso alone di bellezza e la rende, se non più facile, sicuramente migliore, più leggera.