Piccola elegia, vasto disegno. Francesco Bargellini, Il significato, premessa e cura di Fabio Flego, Viareggio (Lucca), Pezzini Editore, 2009
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di Giuseppe Panella*
Un piccolo mannello di versi ma compatti e non dispersi come il loro esiguo numero potrebbe facilmente far pensare al lettore distratto – un canzoniere ristretto nello spazio degli anni e certamente riconducibile a vicende familiari, personali, soggettive e quindi, proprio per questo, universali nel tema e nel tempo…
Come scrive Fabio Flego nella sua breve Premessa al testo di Bargellini:
«Il poeta ha perseguito indubbiamente, rispetto alle prove giovanili, ma sempre restando fedele alla matrice di un “travestimento storico-letterario, mitologico e mitologizzante, di contenuti personali”, una ricerca di semplificazione formale e dunque di comunicazione quanto più vasta possibile – ritenendo stare proprio nella condivisione la cifra dell’arte. Da qui il rigetto di ogni orfismo, lambiccato avanguardismo e poesia criptica tout court: avvicinandosi piuttosto, il suo ideale, al modello della poesia onesta di Saba. Dunque Bargellini si sforza, cercando al contempo di evitare banalità, di essere leggibile, fruibile, partecipabile da un pubblico che non voglia essere necessariamente vellicato da un’arte, dicevo, per iniziati – e un’arte, anche, egotistica per egotisti. Accessibile, senza esserlo in maniera deteriore. Senza essere facile. Anzi…» (p. 3).
Se, dunque, l’elegia poetica di Bargellini sembra apparentemente circoscritta ad un circuito ristretto di possibilità e di soluzioni sia formali che di contenuto enunciativo, il disegno che la sottende è assai più vasto. La prospettiva del poeta è, a mio avviso, dichiaratamente mitopoietica anche se ridotta alla condizione di un Io che vuole esporre di se stesso non un grande mare ma un fiume ben ricondotto ai suoi argini, quelli che ne esperiscono e ne fanno emergere l’ispirazione più profonda, meno largamente fabulatoria. C’è in Bargellini come un desiderio di contenersi, di auto-limitarsi per essere più espressivo, più conclusivo nella sintesi lirica ed etico-rappresentativa.
Di conseguenza, il suo slargo lirico è riconducibile alla volontà di dire più che di narrare:
«Raccontando il mio amore a un’amica. La vita nova amica mia / non mi usò cortesia, abusò la sua forza / e mi crebbe infinita. Mi solcò dividendo / tra un prima e un dopo, e così fu l’anno zero / della storia di un uomo. // Spaventosa radice e germoglio di festa, / giornata mai vista con le nuvole in testa / braccate dal sole, pietra di pietro, / diavolo in chiesa e cristo alla bisca, / generale sommossa e potenza e miseria, / fu questo e di più. // Ma non mi pento, davvero. // Si vive la vita soffiando sul fuoco, / prima che infuri la fiamma sul serio / e si prenda quel poco» (p. 19).
Tutto viene, allora, qui ricondotto ad un Io minimale (ma non minimo) che, nell’amore ricercato e finalmente trovato, individua il suo “anno zero”, il suo punto di ripartenza. Ciò comporta un processo di rovesciamento delle sue precedenti coordinate e una presa di posizione sul mondo che sembra contraddire tutti i suoi precedenti punti di vista su di esso. “Diavolo” e “cristo” sono ovviamente estremizzazioni che non riconducono se non al punto di partenza del tutto, alla prospettiva iniziale. Rovesciare la propria visione del mondo e trasformarla in qualcosa che precedentemente sarebbe sembrato impossibile e forse assolutamente diverso o inaccettabile proprio perché si è innamorati è ciò che accade agli amanti che si concedono sinceramente di rimettersi in gioco, di cambiare il proprio modo di vivere e pensare, di produrre in se stessi una “sommossa” assoluta. La fiamma dell’amore che esplode improvvisa e inarrestabile cambia le prospettive della vita e la trasforma – come avrebbe voluto Dante e dopo di lui infinite generazioni di poeti – in qualcosa di nuovo e di infinitamente più dolce e ardente insieme. L’uso di espressioni apparentemente impoetiche come quelle qui utilizzate vuole produrre, in realtà, un effetto di straniamento e di stupore nei confronti di ciò che è accaduto e dargli maggior forza, maggior potere.
Lo stesso accade in un’altra lirica dedicata a una vicenda apparentemente piccola ma densa di significato, quel “significato”, infatti, cui il libro si intitola:
«Il rosmarino sta morendo. “Il rosmarino sta morendo”, confessa / mio padre a mia madre con studiata lentezza. / Assapora anche il fallimento / chi dedica al giardino un tempo distratto / prima che faccia lunedì – un’altra / settimana in clessidra, un’altra / caccia al tesoro e alla stima dei suoi. // Mi fa dolore la sua forza, / che ha atteso a invecchiare il tempo / che io fossi cresciuto. E ancora resiste / e nasconde se può, senza cenno di resa. / La dignità è una miseria che addolcisce, / come un’altra candela in una chiesa» (p. 10).
La morte del rosmarino, una scomparsa lenta e progressiva, marca l’insostenibile (quanto incalcolabile) marcia del tempo. Tutto svanisce e anche il giardino più curato (come quello evocato da Candide nel celebre romanzo di Voltaire) mostra i primi cenni di cedimento, di disattenzione, di una mancata capacità di applicazione diretta. Questa scomparsa, dunque, è la misura degli anni, la necessità di cedere il passo, il sentimento di invecchiare sempre più evidente. Ma proprio la poesia segna un momento di resistenza nei confronti di questa modificazione altrimenti inarrestabile – il tempo si ferma di fronte alla volontà e al desiderio di continuare, di durare, di affrancarsi dalle spire stritolanti del passaggio verso la morte a venire. Il rosmarino non è ancora morto – sembra aggiungere il poeta – perché nominandolo e descrivendolo si oppone alla propria scomparsa definitiva, è capace di reggere il tempo che ci vuole per essere sostituito (come ha fatto il padre invecchiato soltanto quando il figlio è cresciuto, divenuto capace e adeguato nella sua autonomia).
E’ questo, per Bargellini, infine, il compito della poesia – opporsi alla morte in nome della propria necessità di continuare, di perfezionarsi, di approfondire il cammino verso una totalità che la definisca compiutamente e la renda possibilmente immortale. E’ un procedimento senza fine, inguaribilmente proteso al fallimento ma dolce come l’incanto dell’amore cui, infatti, viene paragonato come simulacro non indifferente dell’arte e della poesia:
«Addio poesia. L’arte è imperfezione / e tu non sei perfetta, capolavoro / fin de siècle che dissero Clodia // un giorno che ti vollero mista / a creature senza genio quasi fossi / un’altra opera ovvia. // Non sanno, / i profani, che se fossi comune / e perfetta ti avrei e addio poesia, // lusso antico. Vivrei / nella casa delle tue mani incorrotto / come Adamo spogliato del fico» (p. 16).
La poesia è ricerca (come Bargellini sa bene) e la ricerca non può avere fine. Così è per l’amore che nasce e si riconquista giorno per giorno, momento per momento, passo per passo. Nessuno dei due momenti della vita può essere considerata ovvia perché deve essere il frutto di un lavoro incondizionato e appassionato, terribile e goduto. Se fosse una conquista facile e per tutti, nessuno vi si dedicherebbe con tanto accanimento…
Tutto proteso alla ricerca di uno stile attento e non corrivo, Bargellini si vede ricondotto, con questi suoi “tentativi di perfezione”, alla necessità di risultati tutti parziali, scabri e dalla voce rotta, di comunicazione poetica. Ma proprio nella loro parzialità risiede il valore e l’interesse di questa sua prova: cercare un “significato” oltre il suo proprio, andare al nocciolo della questione, ricondurre la poesia alla sua natura di passaggio dall’Io a ciò che lo circonda e vorrebbe annientarlo, significa provare ad andare oltre il puro senso della scrittura per raggiungere una meta ulteriore (anche se non ultima). In questo viaggio, forse, risiede quel significato, quella possibilità finale di comprensione della vita che troppo sovente la poesia ha dimenticato di doversi prefiggere.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)