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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.95: Giorno dopo giorno, la rabbia e l’ Eros cosmogonico. Alfredo De Palchi, “Foemina Tellus”

Creato il 06 giugno 2012 da Fabry2010

Pubblicato da giuseppepanella su giugno 6, 2012

QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.95: Giorno dopo giorno, la rabbia e l’ Eros cosmogonico. Alfredo De Palchi, “Foemina Tellus”
Giorno dopo giorno, la rabbia e l’ Eros cosmogonico. Alfredo De Palchi, Foemina Tellus, con una Prefazione di Sandro Montalto e una Nota di Luigi Fontanella, Novi Ligure (Alessandria), Joker Edizioni, 2010

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di Giuseppe Panella*


Giorno dopo giorno (“Alfredo De Palchi nasce ogni mattina” – è l’unica nota biografica che si può trovare nel libro), il dolore di vivere permane e si rinnova e così pure la rabbia e il duro (quanto giustificato) risentimento contro coloro che hanno cercato di distruggerne la vita e la passione che l’animava prima dell’esplosione del furore poetico ed affabulatorio.

Foemina Tellus è il libro che conclude forse una carriera poetica densa e tracimante (ma, ovviamente, non si può mai dire mai) e in questa veste va letto come una resa di conti con il Tempo (ormai divenuto nemico) e la Morte, ultimo avversario contro il quale combattere con ferocia e non larvato disappunto. La conclusione della vita appare come un evento del quale si può fare poesia in termini che forse non sarebbero permessi alla prosa.

« per il mio compleanno. Il dieci dicembre / la morte è nata / compagna / sposa che allarga le cosce per accogliere / nello zolfo la mia vita // avida a succhiare la tetta sgonfia / rimanere scarna / ossuta e porosa quanto la pretesa / imponderabile »[1].

Di solito è la vita ad essere “imponderabile”; in De Palchi, invece, è la Morte ad essere il punto di riferimento costante dell’esistenza e solo tramite essa l’esistenza acquista un senso compiuto e comprensibile, fatto di ricerca e di piacere, resa capace di respirare nell’inferno in cui di solito viene a trovarsi e di nutrirsi anche di quello che dovrebbe, invece, trasformarsi in sostanza nociva.

La Morte è collegata, indistricabilmente, potentemente, compiutamente, al dramma della vita perché anch’essa si configura come una grande figura femminile (una Donna contraddittoria e sconvolgente il cui grembo rapace e seducente fagocita e attira gli uomini e li rende suoi schiavi).

«Chiave di lettura della poesia depalchiana appare essere quindi il cannibalismo: il silenzio imposto al lamento di un uomo come di un’umanità intera genera il cannibalismo tra vittime, e se alle lusinghe dell’eros si cede facendo proprio l’altrui corpo come l’altrui pensiero, alle offese dell’età si reagisce quasi vampirizzando, ma dolcemente, l’energia dei giovani, o attingendo alle emozioni della persona amata, una donna che per il poeta è angelo e demone, sogno e carne, profumo e mestruo, compagna e mantide, vicina e lontana, vergine e nobilissima puttana»[2].

Ma soprattutto De Palchi sostiene che la donna amata nella sua interezza e nella sua complessità è Femmina, un essere che abbraccia tutta la Terra e la feconda rendendola il luogo del Male ma anche quello della sua possibile redenzione attraverso la lotta corpo a corpo compiuta dal poeta “contro la sua morte”. Non so se il poeta di Verona pensi davvero che la scrittura poetica possa riscattarlo dalla necessità della morte e del decadimento fisico, dalla putrefazione che essa comporta (come pure crede Luigi Fontanella[3]), ma sicuramente la poesia rappresenta nel suo sistema di riferimento culturale una forma di esorcismo e di allontanamento programmatico dall’abisso della fine che si vede, ogni tanto, come spalancato ad altezza d’uomo.

La Morte è il simbolo di tutto ciò che il poeta ha dovuto accettare per sopravvivere; è la pesante eredità che ha dovuto accettare, è la negazione del sogno e della speranza che la poesia contiene:

«Younger than springtime, am I ? / a ottanta / la mia giovinezza che ha il florido / colore del cadavere ripristinato / a te che sei eterna / grida la gioia / non l’orgoglio di trascinarsi / alla caverna che abbaglia / per il bagliore della tua presenza / maligna malevola malefica»[4].

La Morte è “maligna malevola malefica” come lo è ancora un passato che non è mai stato superato del tutto o respinto nel limbo di una coscienza pacificata (e la cui eco profonda e maledetta risuona ancora, nonostante il tempo trascorso e la morte sopravvenuta dei suoi responsabili violenti, disumani e del tutto in malafede [5]).

Ma la Morte è forse meno micidiale dell’operato di chi lo ha trattato come un paria o come un criminale e la cui dannazione va oltre la loro fine terrena e riverbera del loro soggiorno dietro le cancellate di San Vito (il cimitero principale di Verona). De Palchi li maledice e descrive come si saranno ridotti nel loro ultimo soggiorno terreno; li trasforma in fantocci senz’anima e in simulacri ormai distrutti e devastati dalla furia del Tempo sulla loro carne e le loro ossa.

Se è cosa consueta (anche se spesso ipocrita) dire sempre bene de mortuis, la rabbia impetuosa e impietosa di De Palchi si scaglia non solo contro la Morte colpevole di volerlo fermare nel lungo cammino della sua vita ma anche contro i luoghi e le figure che hanno costellato e devastato gli anni della sua giovinezza. La sua rabbia è cosmica (anche se spesso indirizzata su soggetti e individui concreti indicati e descritti con cognomi e nomi) così come cosmico, anzi cosmogonico (per dirla con Ludwig Klages) è il suo confronto-accettazione-congiungimento con l’Eros come forza assoluta che muove il mondo e la sua dinamica continua e accentratrice, assurda e magnifica, possente e stratificata, lenta e rapidissima, unica e molteplice:

«Potessi rivivere l’esperienza / dell’inferno terrestre entro / la fisicità della “materia oscura” che frana / in un buco di vuoto / per ritrovarsi “energia oscura” in un altro / universo di un altro vuoto / dove / la sequenza della vita ripeterebbe / le piccolezze umane / gli errori subordinati agli orrori / le bellezze alle brutture / da uno spazio dopo spazio / incolume e trasparente da osservarla io solo // rivivere senza sonni le audacie / e le storpiature / persino le finestre divelte / i mobili il violino il baule / dei miei segreti / tutti gli oggetti asportati da figuri plebei / miseri femori »[6].

La vita è assoluta e repentina ciclicità di momenti alternantisi di felicità e di dolore, di angoscia e di orrore, di inferni ripetuti e progettati insieme al paradiso dell’Eros originario cui essi rimandano nel momento in cui si rivelano nella loro fisicità come forme dell’esperienza umana dell’esistere comune. Passare attraverso il “buco nero” del passato per riviverne le miserie e le grandezze, “le bellezze e le brutture” e ritrovarsi a ripercorrerne il percorso ancora e ancora è l’aspirazione depalchiana a mimare l’immortalità nel modo (solo unicamente laico, tutto giocato sull’immanenza) in cui gli sembra oggi possibile postularla e ripensarne i caratteri. Forse quel black hole di oscura materia rappresenta (e certo lo simboleggia come soggetto umano) la sua aspirazione alla poesia, a fare in modo che anche per lui “l’erba ritrovi il suo splendore” (Wordsworth) e ritorni la primavera dopo l’inverno dello scontento e del dolore. Se questo avviene (e per De Palchi certo avviene “ogni mattina”), morire e rinascere divengono tutt’uno e si rincorrono come la notte fa con il giorno, nel gioco eterno, incomprensibile e magnifico della vita come il valore assoluto che contraddistingue la continua e splendida rinascita del tempo memorabile e incomprensibile che viene a tutti assegnato per lo spazio della loro esistenza.


NOTE

[1] A. DE PALCHI, Foemina Tellus, prefazione di S. Montalto, con una nota di L. Fontanella, Novi Ligure (Alessandria), Joker Edizioni, 2010, p. 28.

[2] S. MONTALTO, Prefazione a A. DE PALCHI, Foemina Tellus cit. , p. 7.

[3] L. FONTANELLA, Nota a Foemina Tellus, postfazione a A. DE PALCHI, Foemina Tellus cit. , p. 92: “E’ questo, mi sembra, il desiderio centrale del poeta: Angelo Sterminatore o neghittoso messaggero del Marcio Totale da una parte e, al contempo, Angelo Purificatore dall’altra, rimbaudiano aspirante alla Bellezza e alla Purezza, sia pure perseguite, ostinatamente, attraverso la parola espiatrice della quotidiana peste. Da qui, infine, e direi perfino, l’afflato “religioso” (termine da intendersi precipuamente nel suo etimo) di Foemina Tellus, i cui versi, a tratti, si offrono nudamente al lettore come sacrificio al Male, quando solo la vera Poesia, spoglia di ogni orpello, come questa di Alfredo De Palchi, è in grado di fronteggiare e sconfiggere”.

[4] A. DE PALCHI, Foemina Tellus cit. , p. 28.

[5] Un elenco di costoro la cui memoria è pur sempre e ancora damnata per De Palchi il quale non esita a nominarli e a bollarli col marchio della loro meritata infamia è contenuto nelle pp. 77-90, nella sezione intitolata Le déluge (2009) di Foemina Tellus che chiude il volume e che può essere considerata, a pieno titolo, una sorta di macabra Spoon River Anthology alla rovescia, dove la condanna non consente né perdono né comprensione per i reprobi.

[6] A. DE PALCHI, Foemina Tellus cit. , p. 81.

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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)


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