di Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino
Giuliano ritratto da Pisciotta, giugno 1950 (Settimana Incom, luglio '50)
L’entità del fenomeno Giuliano si può sintetizzare in pochi, scarni numeri: 34 caserme assaltate; 100 carabinieri uccisi; 411 delitti accertati, tra i quali diverse stragi di civili e numerosi omicidi di gente inerme; armi, munizioni e vettovagliamenti militari sufficienti ad armare 2000 uomini. Un milione al giorno il costo delle attività del Comando forze repressione banditismo (Cfrb), al quale va aggiunto il vitto e il salario di ufficiali e militi. Due miliardi di vecchie lire il costo complessivo della lotta contro il fuorilegge; 589 banditi arrestati in sette anni.
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Del “re di Montelepre” si occupa la stampa di tutto il mondo. Ma è solo dopo le stragi siciliane del 1947 che il bandito comincia a suscitare una curiosità mai registrata prima nell’opinione pubblica. In quegli anni infami nessuno poteva sospettare ciò che gli archivi inglesi, americani e italiani ci hanno restituito dopo il 2000 e che abbiamo raccontato in vari libri. La gente comune però, armata di buon senso, si chiede chi sia veramente questo criminale, da chi prenda ordini, di quale organizzazione faccia realmente parte, chi lo abbia protetto e come si sia potuto difendere da quanti avrebbero preferito vederlo morto.
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Con il titolo “Nessuno ha mai visto il bandito Giuliano” Tommaso Besozzi inizia la sua inchiesta sul brigantaggio in Sicilia, pubblicata su “L’Europeo” a partire dal 13 luglio 1947. Sono trascorsi due mesi e mezzo dalla strage di Portella della Ginestra e i dubbi che le cose siano andate diversamente da come sono state raccontate dalle autorità dell’epoca cominciano a serpeggiare in varie redazioni giornalistiche.
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Besozzi è un reporter a cinque stelle. Come un segugio, nelle settimane successive agli eccidi di quella primavera segue piste ben precise, guidato dal suo fiuto di grande cronista. Ci racconta, ad esempio, assieme a Ludovico Tuccu, gli strani movimenti del superboss Lucky Luciano nella provincia di Palermo. Parla anche della sua famosa Dodge rossa, a bordo della quale i testimoni degli assalti alle Camere del lavoro del 22 giugno 1947, scorgono alcuni giovanotti elegantemente vestiti, armati di tutto punto.
Giuliano in casa De Maria, giugno 1950 (L'Europeo 4 dic 1960)
Ma in quell’articolo del 13 luglio, intitolato non a caso “Nessuno ha mai visto il bandito Giuliano”, Besozzi avanza pesanti dubbi sull’identità stessa del capobanda monteleprino. L’occasione gli è data dal rapimento, ad opera della banda, di Giuseppe Geraci, un facoltoso uomo d’affari palermitano sequestrato per chiederne il riscatto. In quasi venti giorni di prigionia Geraci non vede mai in faccia il famoso Robin Hood siciliano e interpellato dal giornalista afferma: “E che ne sai tu se Giuliano era più vicino a me quando stavo a Roma? Chi l’ha mai visto Giuliano? Chi sarebbe in grado di distinguerlo da un altro picciotto qualunque?”.
L’articolo è molto chiaro. Due mesi dopo Portella i Carabinieri hanno nel loro schedario ufficiale soltanto una foto del bandito risalente a sei anni prima, quando Giuliano aveva diciott’anni. Besozzi incalza: “Come lui ce ne sono altri diecimila in Sicilia, capigliatura nera e impomatata, due occhi scintillanti, un viso dalla pelle abbronzata e dall’espressione comune”. E conclude: “Insomma chi l’ha mai visto?”.
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Anche all’inizio del processo di Viterbo, nel giugno 1950, i giudici hanno difficoltà a identificare l’imputato numero uno. Di foto non ne circolano. L’unica, scattata in data incerta, in mano ai Carabinieri, è quella in cui il bandito appare in sella a un cavallo. All’Arma, secondo il giornalista Renzo Trionfera, l’ha consegnata Salvatore Ferreri, il famoso Fra’ Diavolo, numero due della banda e primo confidente dell’ispettore di Ps, Ettore Messana.
Giuliano a cavallo (foto consegnata ai Cc da Fra' Diavolo nel '47)
Ma quell’unica immagine è il risultato di uno sforzo di intelligence, mentre le forze dell’ordine non hanno di fatto schedari dei principali ricercati dalla legge.
Di uno o più sosia, o di controfigure di Salvatore Giuliano da utilizzare al momento opportuno per fingerne la morte, parlano negli anni ’80 Pasquale ‘Pino’ Sciortino, il cognato di Giuliano, e il giornalista Sandro Attanasio, come abbiamo detto nel post del 27 giugno 2010 intitolato: “Salvatore Giuliano: di sicuro c’è solo che (forse) è morto”. Una ipotesi, questa, non isolata. Nel numero de “L’Europeo” dell’11 dicembre 1960, intitolato “L’ho ucciso io, urlò Pisciotta. La verità sulla drammatica notte in casa De Maria”, Trionfera scrive:
“Mentre i carabinieri preparavano una trappola in cui farlo cadere, lui [Salvatore Giuliano] meditava adeguate contropartite nei confronti del Comando forze repressione banditismo (Cfrb). Come riferirono alcuni confidenti, egli stava macchinando un’azione complicatissima. Aveva incaricato i suoi collaboratori di cercare un giovanotto che avesse pressappoco la sua età e la sua corporatura. Una controfigura, insomma, alla quale Turiddu avrebbe riservato una sorte crudele”. Tale mossa avrebbe avuto come effetto immediato l’interruzione delle ricerche del bandito, permettendogli di dileguarsi.
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Il progetto che ci viene svelato da Trionfera sembra trovare la sua definitiva attuazione nella messa in scena del luglio 1950 a Castelvetrano. Sta di fatto che, compiute le stragi del 1947 e dopo essersi impegnato nella campagna elettorale per le politiche del 1948, Giuliano pretende che si stia ai patti. Ma da questo orecchio nessuno lo vuole sentire. Gli dà ascolto solo il vecchio ispettore di Pubblica sicurezza Ciro Verdiani che lo avvicina in tutte le maniere, attraverso Cosa Nostra, e in particolare la famiglia Miceli di Monreale. Verdiani fa quello che può nel cercare di controllare il capobanda, ma i suoi tentativi sono vani. Giuliano ha già cambiato tattica dopo le elezioni del ’48 e alle promesse non mantenute della Dc e della mafia risponde uccidendo in modo plateale due tra i suoi più autorevoli rappresentanti: Leonardo Renda ad Alcamo e Santo Fleres a Partinico, nel luglio 1948. Di questo mutamento ci parla Trionfera su “L’Europeo” del 4 dicembre 1960 (titolo ‘Il grande agguato’): “L’8 di aprile del ’49, all’alba Giuliano fece attaccare una pattuglia di Carabinieri nella zona di Torretta (alla periferia di Palermo). Morì un milite fulminato da una revolverata. Altri otto restarono più o meno gravemente feriti. Il 2 luglio successivo fu assaltata una camionetta della polizia a Portella della Paglia. Il bilancio di questa seconda azione fu ancora più tragico: rimasero sul terreno cinque agenti”.
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L’offensiva raggiunge il suo culmine la notte tra il 19 e il 20 agosto 1949. E’ attaccata a colpi di mitra la caserma dei Cc di Bellolampo, a metà strada tra Palermo e Montelepre. Il presidio dà l’allarme telefonico. Partono autoblindo e gipponi. Ma, giunti sul posto, non trovano nessuno. Di banditi neanche una traccia. Iniziano i rastrellamenti ed è solo all’alba che Verdiani ordina a tutti il rientro a Palermo. A questo punto entrano in azione altri due gruppi di attentatori. Scavano sullo stradale una buca e vi collocano una mina contenente diversi chili di tritolo. Il detonatore è collegato a un lungo filo di ferro manovrato a distanza. Quando il convoglio attraversa quel tratto, i terroristi fanno esplodere la mina. Un gippone salta in aria. I morti sono sette, i feriti, terribilmente mutilati, una ventina. Si inaugura così l’archetipo del terrorismo contemporaneo in Italia che tanti lutti provocherà nei decenni successivi.
Con questi morti il bilancio dei carabinieri uccisi dal capobanda, dal 1943, sale a cento. Ma non è tutto. Un altro gruppo di banditi si apposta a Passo di Rigano e al passaggio della macchina di Verdiani spara all’impazzata lanciando bombe a mano. L’ispettore ne esce vivo per miracolo.
Salemi, 17 novembre 1949
Secondo Trionfera, che ne parla nello stesso articolo sopra citato, il bandito, a questo punto, si sente forte e ritiene di potere aprire una trattativa definitiva per chiudere a suo vantaggio la battaglia che sta conducendo, a modo suo, contro lo Stato. Giuliano quindi torna a incontrarsi con Verdiani e al contempo cerca di agganciare il colonnello Luca, dal 27 agosto ’49 capo del Cfrb.
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Quello che accade dopo è noto. Ma bisogna fare attenzione a mettere i tasselli in ordine logico dando priorità a ciò che sembra restare in secondo piano. E sullo sfondo leggiamo i seguenti fatti: Verdiani, nonostante non abbia più nessuna funzione, rimane in Sicilia e incontra più volte il bandito. Contemporaneamente alcuni giornalisti, guidati da Jacopo Rizza, si mettono sulle tracce di Giuliano. L’iniziativa parte dall’editore Giorgio De Fonseca che la mattina del 7 ottobre 1949, negli uffici della Rizzoli (editore del settimanale “Oggi” in via Barberini a Roma), propone a Rizza di andare a intervistare Giuliano. Del gruppo fanno parte Italo D’Ambrosio e Ivo Meldolesi, entrambi fotoreporter dell’agenzia Meldolesi della capitale. Fissano il loro quartier generale all’hotel Sole di Palermo, ma si recano spesso a Partinico, dove si incontrano con un mediatore che li mette in contatto con Giuliano. L’incontro avviene in una masseria, a circa dieci chilometri dal bivio per Salemi. I giornalisti sono forniti di macchine fotografiche e cinepresa. Alla fine, il 17 novembre 1949, si trovano faccia a faccia con il bandito in una stalla, dove Giuliano arriva con Pisciotta. Giuliano svela al giornalista la sua intenzione di volere espatriare, come aveva già fatto Sciortino, nell’estate del ’47, e gli confida di aver compilato un diario dettagliato sulle vicende degli ultimi anni (“La Settimana Incom illustrata”, 16 aprile 1961).
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Ma c’è qualcosa che non torna nella cronistoria di quanto accade in quella stalla nei pressi di Salemi. In un articolo scritto per la rivista “Oggi” (“Come penetrai nel covo di Giuliano”, 17 dicembre 1959) Ivo Meldolesi ci fornisce dettagli che si discostano dalla versione di Rizza. A cominciare dalle date. Per Rizza, come abbiamo visto, i preparativi dell’incontro risalgono al 7 ottobre ’49 e si chiudono con l’intervista del 17 novembre. Il tutto su iniziativa dell’editore De Fonseca. Meldolesi invece scrive che “la grande avventura” inizia a Roma il 9 novembre quando lo stesso Meldolesi ne parla con Ugo Zatterin, a capo della redazione romana di “Oggi”. A partire assieme a Meldolesi e a d’Ambrosio, doveva essere proprio Zatterin, ma questi passa il testimone a Jacopo Rizza, perchè – dice – ha la “mamma ammalata”.
Ultima, macroscopica discrepanza rispetto alla versione di Rizza sta nella data dell’incontro. Secondo Meldolesi avviene, infatti, il 10 dicembre ‘49. Ovvero più di tre settimane dopo quella indicata da Rizza. Come spiegare questa divergenza?
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5 luglio 1950 (si noti la posizione dei piedi e delle armi)
Sul settimanale “Oggi” del 20 luglio 1950, nell’articolo “Tre ipotesi sulla fine di Giuliano”, il giornalista Enrico Roda scrive che all’inizio di quell’anno i giornali pubblicano la notizia che Giuliano è fuggito in America. Il Cfrb è costretto a divulgare un comunicato ufficiale per smentire la voce, spiegando che il bandito si è semplicemente “trasferito in altra zona”. Qualunque sia questa zona, è chiaro che è mutato lo scenario. Più ristretto di quello monteleprino e palermitano, meno sottoposto ai riflettori della stampa e di occhi indiscreti. Insomma, tra l’autunno del ‘49 e l’inizio dell’estate del ’50 si svolge una trattativa occulta. Infatti, in un articolo pubblicato da “Oggi” il 26 aprile 1951, non firmato, si legge: “Ci furono incontri tra Giuliano ed esponenti del Cfrb? Durante queste settimane, questo è certo, si notò un gran movimento attorno a Villa Carolina, nei pressi di Monreale, e le squadriglie rimasero per quindici giorni a riposo nelle caserme. Luca forse pensava ad avere un memoriale di Giuliano sulla strage di Portella della Ginestra e non era restìo, come egli stesso confessò ad un giornalista che lo aveva intervistato subito dopo la morte di Giuliano, ad incontrarsi direttamente col bandito”.
Certo è che Cosa nostra non rimane alla finestra a guardare lo spettacolo. A questo periodo risale un fitto carteggio tra Verdiani, Giuliano, Pisciotta, Perenze, Miceli, capimafia questi ultimi di Monreale, datata tra febbraio e giugno ’50. Ma non solo: “Bisognava poi aggiungere l’elenco dei viaggi effettuati da Palermo a Roma e viceversa dall’inseparabile coppia Ignazio Miceli- Domenico Albano, tra l’agosto del ’49 e il 5 luglio del ’50. [...] E’ abbastanza evidente che nei mesi che precedono la morte di Giuliano si svolge una frenetica azione sotterranea che ha i suoi referenti nelle principali cosche mafiose della Sicilia occidentale e, attraverso di queste, in certi ambienti romani controllati dal Ministero dell’Interno di cui Verdiani è la punta più vistosa” (Casarrubea, Salvatore Giuliano, Milano, FrancoAngeli, 2001, p. 150). Nel luglio 1951, durante una deposizione resa al processo di Viterbo, Verdiani aggiunge dettagli ancora più inquietanti: “Nella seconda decade di maggio ’50, io informai del rapporto avuto con Giuliano la Direzione generale di Ps. Mi si disse di non occuparmi pù della faccenda Giuliano per essere sopravvenuta una nuova organizzazione”.
In definitiva le trattative occulte iniziano dopo la strage di Bellolampo e, alla vigilia di Castelvetrano entra in scena una nuova misteriosa identità che prende il sopravvento su tutto e tutti, anche sulle funzioni del Cfrb, con la mediazione di Cosa Nostra. Di quale organizzazione si tratta?
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5 luglio 1950 (si noti la posizione differente rispetto alla foto in alto)
Dunque, una trattativa è ammessa anche dai testimoni oculari del tempo e non c’è dubbio alcuno che, da entrambe le parti, ci sia stata la massima collaborazione per ottenere quanto si sperava. Per Giuliano l’agognata libertà, per Luca la certezza che documenti scottanti sui sette anni di Turiddu e in particolar modo sulle stragi della primavera del ’47, non sarebbero mai venuti alla luce.
Questa fu la misura dello scambio e lo Stato dovette scendere a patti, come più volte aveva fatto fin dal 1943. Che le cose siano poi andate in questa direzione, ossia che la trattativa sia andata a buon fine, è ciò che la magistratura dovrebbe finalmente appurare.
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