C’è un giorno di tre anni fa che non credo dimenticherò mai: è il giorno in cui ho letto per la prima volta la mia firma su un giornale. Ricordo che ero con le Dears in gelateria e che non sapevo quando uscisse il nuovo numero di Rivista di grido, il bisettimanale con il quale avevo cominciato a collaborare da poco. E lo trovai là, tra i tavoli. Era un pezzo con un titolo orrendo e praticamente privo di interesse, però quando lo vidi impaginato, col mio nome lì sotto, pensai che era tutto bellissimo. E che quello del giornalista era il mestiere più bello del mondo.
Sono trascorsi tre anni, di acqua sotto i ponti ne è passata. Non tantissima, ma ne è passata. Eppure ogni volta quel mio nome all’inizio degli articoli mi fa lo stesso effetto. Per la possibilità che mi si dà, non per altro. Il privilegio di poter raccontare storie. E non importa che non siano grandi storie, perché sono comunque pezzi di qualcosa di più complesso, di un puzzle che cerchi di costruire e che se hai fortuna viene fuori tutto intero.
Tre anni e non lo so se sono migliorata un pochino oppure no. Ricordo che quando ho cominciato a scrivere per l’altro giornale, dopo Rivista di grido, guardavo il coordinatore di redazione con timore reverenziale. La direttora era sempre buonissima con me, però lui proprio non mi guardava di striscio. Pensavo mi ignorasse, anzi, pensavo che non amasse le cazzate che scrivevo, pensavo mi trovasse un’idiota sgrammaticata. E poi i miei pezzi non li passava mai, se li smazzava sempre la direttora. Tutti mi avevano parlato di lui come di un uomo implacabile nelle sue stroncature. Collegamica Femminista e Rivoluzionaria mi aveva raccontato di aspiranti giornaliste scappate in lacrime, dopo le sue correzioni. Io volevo che mi distruggesse, pensavo che meglio cambiare mestiere subito, no? Così, un giorno, gliel’ho detto: «Capo – ho cominciato – perché i miei articoli non li vuoi guardare mai?». S’è messo a ridere e, con leggerezza, ha risposto: «Perché con te non mi diverto, non ho quasi mai niente da rimproverarti».
E a quel «quasi mai» pensava la direttora: «LaCapa, sei una giornalista, non un addetto stampa: quando raccogli le dichiarazioni di qualcuno, scordati quel cazzo di passato prossimo e mettici il presente», tipo. Mi ripeto questa frase ogni volta che Tizio dichiara qualcosa, che Caio gli risponde o che Sempronio interviene. Dei complimenti non me ne faccio nulla, sono le correzioni l’unica cosa che mi serve sul serio. E i buoni maestri, ça va sans dire.
Stesso identico meccanismo per «nel Catanese» o «nel Palermitano». Qualcuno mi ha corretta, una volta: «Oh, lo sbagli sempre! Ci va la maiuscola, ché sennò si fa confusione e non si capisce che cosa vuoi dire!». Sulla questione maiuscole/minuscole adesso mi resta solo da mettermi in testa che sono le «forze dell’ordine» e poi sono a cavallo.
Ancora non ho il senso della notizia, ma quello o ce l’hai oppure nessuno te lo può insegnare. Però ho imparato un pochino a dissimulare questa mia mancanza e ogni tanto qualcuno finge di non farci caso.
E ho imparato che la gente è più complicata di quanto possa sembrare, che la vita delle persone prende pieghe inaspettate all’improvviso e che un giornalista è bravo quando riesce a cogliere le sfumature e a non lasciarsi trasportare troppo. Io non sono brava, perché non solo le sfumature mi vengono difficilissime, in più mi lascio trasportare più del dovuto.
Continuo a pensare che l’intervista al testimone di giustizia Ulisse sia stata una delle cose umanamente più belle che io abbia mai fatto. Eppure nel pezzo che ho scritto non si capisce che uomo fosse, e mi dispiace, mi mangio le mani, perché probabilmente lui avrebbe meritato la giornalista più in gamba che vorrei essere e che ancora non sono.
Io lo so che sono arrogante, me lo dicono tutti. Ma so anche che non sono brava nel lavoro che mi piacerebbe tanto fare. Meglio di molti altri sì, ma mica brava. Quelli bravi sono gli altri, con alcuni ho l’onore di lavorarci, altri ho avuto modo di conoscerli e di parlarci, altri ancora mi limito a venerarli da lontano come si fa con le popstar nel pantheon del «magariddio scrivessi bene la metà».
Una volta, una di queste popstar mi ha definita «collega». Mi sono vergognata tantissimo, ho pensato che stesse sbagliando, che mi sopravvalutava, che bisognava che qualcuno gli facesse notare l’errore e io mica mi potevo permettere di. Collega io, che ogni volta che dico «faccio la giornalista» mi correggo subito con «mi piacerebbe fare la giornalista». Oppure «tento di fare la giornalista». O anche «dico che faccio la giornalista, ma è per non ammettere che sono disoccupata».
Per tre anni, dall’inizio di tutto questo a oggi, la cosa più difficile tra tutte è stata farmi prendere sul serio, dimostrare che essere giovane non significava essere scema, oppure viziata, oppure una che sta giocando a fare quella grande. In tanti vogliono un manifesto attaccato alla parete, pretendono una targa davanti alla porta. «Giornalista?» «Sì» «Iscritta all’albo?» «No» «Ah, vabbè, allora».
Qualche mese fa ho inviato la domanda all’OdG. Quella domanda. Ho seguito un mini-corso di due giorni e poi ho fatto una specie di colloquio. Alla fine, sono uscita e mi sono accesa una sigaretta. Mi hanno detto che avevo la faccia di chi si sta fumando la sua sigaretta post rapporto sessuale. Qualche settimana dopo, l’Ordine mi ha comunicato che la mia richiesta di iscrizione era stata accolta. Pagate le tasse e inviate le ricevute, mancava solo una cosa: che mi arrivasse il tesserino.
L’ho ricevuto per posta mercoledì, un giorno dopo il mio compleanno. Rosso, con quella bruttissima fototessera sulla seconda facciata e ogni singolo minuto di lavoro dentro. Tutte quelle ore spese a scrivere, quegli appuntamenti saltati perché c’era un pezzo da aggiornare, qualcosa da seguire. Tutti i rimproveri degli amici che dicono che sei assente, tutte le prese in giro dei conoscenti che ti chiedono se da grande vuoi lavorare per Emilio Fede, tutte le urla di Padre e Madre che preferirebbero vederti laureata piuttosto che stanca e felice, tutti gli sguardi strani di quelli per cui il lavoro è un mezzo per migliorare la propria qualità della vita, non un pezzo sostanziale di quella stessa vita.
Ho preso in mano il simbolo – perché il tesserino non è altro che un simbolo – dell’impegno e della passione che ci metto, ci ho visto stampate sopra milioni di battute e centinaia di titoli. Prima mi sono commossa, poi mi sono accesa una sigaretta. E sì, mi sa che alla prima boccata avevo di nuovo quella espressione là. Quella post rapporto sessuale.