
C’è nel film dedicato a Pietro Ingrao, distribuito con l’Unità, un soggetto, un «protagonista» che sembra scomparso. È quello che emerge nelle piazze tumultuose, nei cortei imponenti. È la testimonianza di un mondo del lavoro unito e combattivo e che accompagna la vita del dirigente del Pci. Dove sono finite quelle masse e che cosa pensano oggi i figli e i nipoti di quegli uomini e di quelle donne? Sono, in definitiva, le domande che lo stesso Ingrao rivolge, nel film, a un ragazzo taciturno. Come è potuto avvenire che quel potenziale di lotta, di voglia di cambiamento - così presente anche nel movimento sindacale - si sia frantumato e disperso?
Eppure è ancora viva, in questa nostra affaticata società, una voglia di protagonismo, di partecipazione. Lo si è visto, ad esempio, nelle stesse primarie del centrosinistra, nel dibattito attorno a Bersani, Vendola, Renzi, Tabacci, Puppato. Ecco perché a me pare che la storia di Pietro non sia la storia di un melanconico addio, di nostalgie disperse, di un sognatore solitario, come in un romanzo d’altri tempi. Bensì invece, ancora una volta, semmai, un incitamento a dubitare, a ripensare. Con un invito semplice e profondo: «Coltivare la democrazia». È uno dei fili conduttori di quello che veniva chiamato l’«ingraismo». Accanto all’altro leit motiv della sua esistenza - «La liberazione non dal lavoro, ma del lavoro» -, un ideale caro anche a Bruno Trentin che aveva dedicato opere e vita per tracciare un percorso capace, appunto, di cominciare a spezzare le catene oppressive che gravano sul mondo del lavoro salariato e che alla fine non giovano nemmeno alle fortune produttive.
Ecco perché non condivido il pensiero di tanti che hanno sempre pensato a Ingrao come a un poeta sconfitto. Certo le sue battaglie riecheggiano molto la bella canzone che accompagna il film: «La solitudine delle idee» dei Têtes de Bois. Ricordo anche io quell’undicesimo congresso del Pci che lo vedeva prima massicciamente applaudito (dalla platea) e poi sottoposto a veementi reprimende da parte di quasi tutti i dirigenti, a causa di quelle sue parole cocenti («Non mi avete convinto») che danno oggi il titolo al film di Filippo Vendemmiati. Era la richiesta del “diritto al dissenso” che per me, allora giovane cronista di questo giornale a Brescia, consegnava emozionanti speranze. Apparivano come un segnale di apertura. Come del resto, a quell’epoca, mi erano sembrate certe prese di posizione di Giorgio Amendola tese a superare il fossato tra comunisti e socialisti. Per cui io, alle prime armi nell’antica sede della federazione comunista, un ex convento di suore, nella città dei Montini e dei Bazoli, ero un po’ ingraiano e un po’ amendoliano.
Anche se più tardi, a Milano, avevo sperimentato la presenza di un autorevole e potente settarismo dogmatico, indegnamente autodefinitosi seguace di Giorgio Amendola. Per costoro chi era in odore di «ingraismo» era considerato un pericoloso estremista, da evitare e isolare, non certo da promuovere. Magari da contrapporre agli operai «stalinisti». Eppure fu proprio la tenacia di uomini come Ingrao che permise di non spezzare i ponti con il grande movimento prima degli studenti e poi degli operai negli anni 60-70 e anche col mondo cattolico piú impegnato nella societá. Permise di sconfiggere, nella sinistra, chi guardava con malcelata diffidenza chi era impegnato nel sollecitare l’esperienza dei consigli di fabbrica e dell’unità sindacale cresciuta dal basso. Ricordo ancora i dirigenti intenti ad avvicinare il cronista per sussurrargli: «Questo è pansindacalismo alla Sorel, questi vogliono fondare un nuovo partito anticomunista. Questi rappresentano solo rigurgiti corporativi». Con una assoluta incomprensione di un sommovimento democratico che scuoteva l’intera società, prima di essere travolto da esaltati criminali fautori della lotta armata.
Ecco perché ho amato Pietro Ingrao. Perché non aveva la sicumera del burocrate. E non penso, come mi suggerisce un amico, che abbia perso tutte le sue battaglie e basta. Lascia, come tante personalità della sua epoca (penso ai miei direttori Alicata, Pintor, Pajetta, Macaluso, Tortorella, Reichlin, Chiaromonte, Pavolini, Ferrara, Ledda, Coppola… ) un esempio di buona e alta politica. Ed è lo stesso Pietro Ingrao che oggi, ultranovantenne, allacciandosi a quelle scene di massa che lo circondano, a quei cortei, a quelle piazze a dirci che non basta l’indignazione, il tuffarsi nell’antipolitica. Bisogna continuare a «coltivare la democrazia». E prima o poi, anche nelle fabbriche, anche nell’esercito dei precari, nascerà un movimento non solo di rivolta, ma di cambiamento vero e possibile.
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