Pubblicato da mariagraziacalandrone su maggio 5, 2012
Quando si accostano con libertà diversi campi del sapere accadono cose necessariamente nuove. Pensiamo alle ricadute inimitabili delle scienze nella poesia di Zanzotto e pensiamo al granello di polvere nell’acqua ma soprattutto nella mente di Einstein, il quale, associando lo zigzagare del granello agli effetti della casualità dei calci dei bambini a un pallone, confermò l’esistenza di certe belle e ridenti molecole-bambini d’acqua che si divertivano a rimbalzarsi un pallone di polvere. Conta la limpidezza della mente. Contano la gioia e il coraggio con i quali guardiamo al mondo: sapendolo iridescente, inafferrabile e splendido anche senza di noi. Una libertà, una coscienza e una curiosità simili a queste devono abitare lo spirito di Stas’ Gawronski, autore di “CultBook”, rischiosissima operazione di messa sulla scena televisiva di libri, in un sistema dove immagini, musica e parola abbiano sperimentato un equilibrio tale da far provare allo spettatore un’emozione simile all’avventura di leggere. Si sfugge al rischio “videoclip” perché qui viene mantenuta alta la qualità etica – ripeto: etica – dei contenuti (interviste sul tema a critici e attori che abbiano legami con i testi, filmati di repertorio degli stessi autori ripescati dagli archivi delle Teche Rai, ritagli di trasposizioni cinematografiche, letture, commenti e affabulazione in studio dello stesso Gawronski) e con un montaggio così esperto e veloce da impedire in maniera categorica la noia, ovvero il pregiudizio più comune dei non lettori nei confronti della letteratura. Il metodo è interpretativo e sulla scena avviene una sorta di esecuzione (naturalmente in senso musicale!) multimediale del testo scritto: Gawronski e la sua redazione mettono a disposizione la propria esperienza di lettori di gusto adulto e sicuro e con una certa praticaccia della vita e delle varie forme artistiche della sua espressione – da Testori a Patti Smith, per citare due estremi di questo sorprendente arco(baleno) televisivo. Rimane certa la tenuta etica – mai moralistica – per il contenuto sottinteso e sparso a piene mani di una coincidenza assoluta tra la vita e l’opera. Lo crediamo anche noi: gli autori hanno il dovere di testimoniare con la propria vita le parole che scrivono nei libri. Altrimenti si sente che è solo aria che suona (quand’anche suoni). Troviamo dunque completamente condivisibile il pre-concetto di questa operazione, ovvero che la letteratura non sia tristo e mero oggetto della letteratura, sia bensì vita che si fa parola. Gawronski è infatti molto attento a raccontare le intersezioni dell’insieme-vita con la sua traduzione nel testo, che setaccia in ogni direzione la nostra esistenza e rende universale quello che di noi e del nostro stesso corpo resta in forma di parola. E ancora: alle spalle di questa operazione deve per forza esserci una fiducia grande nella potenza della letteratura, ovvero che la parola dei grandi sia così incrollabile, immaginifica e ferma da poter reggere alla contaminazione di figure e musiche che le sarebbero aliene. Anzi, l’intenzione dev’essere proprio quella di gettare l’esca, di suscitare curiosità e passione affinché alcuni radiosi e novelli pesci-lettori entrino nella terza dimensione della parola, come auspicava Ernesto Ferrero nella conferenza stampa di presentazione dell’edizione 2012 di “CultBook”. Per esempio: alcuni ragazzi di un liceo torinese verranno sguinzagliati quest’anno in un gioco davvero intelligente: investigheranno il Salone del libro e ne faranno reportage in rete. Ecco la realtà, il coinvolgimento. Lo schermo manca con ogni evidenza di quelle scaglie di profondità che si formano durante il contatto alchemico tra parola scritta (da un altro) e l’esperienza privata di ognuno davanti alla pagina. Gli occhi della mia Karenina sono quelli di nessun altro. Il suo segno di addio è solo mio. Certamente non quella di Tolstoj. Diciamo dunque che Gawronski si pone, con Eraldo Affinati – autore della preziosissima rubrica dedicata ai classici – e Maria Agostinelli – che, al contrario, esplora le novità – alle soglie del mondo letterario. Queste persone pongono se stesse come traghettatori verso l’altromondo il cui solo tramite è la parola scritta che scorre sotto i nostri occhi quando siamo soli. O meglio, quando siamo riusciti a entrare in quella dimensione parallela. L’operazione è efficace, perché dal complesso delle puntate di “CultBook” esplode o stilla (dipende dai libri!) un amore radioso per la vita, una affermazione, una resa gioiosa. Un assenso continuo alla bellezza del mondo viene distillato dalle pagine, anche da quelle più smascheranti la nostra zona grigia come La tregua di Primo Levi. Viene ovunque smentita la figurazione comune del poeta e dello scrittore ingobbito su carte piene di polvere, viene qui lanciato in alto, verso la faccia degli spettatori, il suo sorriso-sangue-pianto-parola. Gli scrittori qui vengono presentati da vivi. Chi scrive interroga spesso se stesso intorno all’opportunità di convertire altre generazioni alla letteratura e alla poesia. Chi fra gli scrittori è abituato a frequentare le scuole sa bene come si venga quotidianamente messi in discussione. Cose che fanno integralmente bene alla salute. Guai a credere di avere messo sulla pagina – di carta o della vita – la parola definitiva. Crediamo dunque che la conclusione di Gawronski, Agostinelli e Affinati – senza prediche ma con i fatti, mettendoci le cose sotto gli occhi – sia appunto mostrare – anzi, meglio: dimostrare – che leggendo si è più liberi, più capaci di scegliere perché più critici. Essi per primi ci provano di avere accresciuto attraverso l’uso le aree del cervello adibite allo sviluppo della fantasia e dei legami inediti tra le cose. Saremo forse un poco meno lievi, certo meno irresponsabili, ma proprio per ciò più profondamente felici, capaci di gioire per lo stupefacente moto di un filo d’erba sotto il vento di aprile, per la piantagione di sangue del glicine che sgocciola ovunque dai ferri delle pergole contro i cieli di Roma: adesso, ancora.