In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si può dire ch’è finito.
Questo è un brano tratto dal romanzo di Ignazio Silone “Fontamara”; perché pure io leggo degli autori italiani. Non molti in realtà.
A volte, ci sono frasi o brani che dicono tantissimo sull’autore, e sulla sua visione del mondo. Questo (ma ce ne sono altri, e non solo in questo libro), ha il pregio di inquadrare alla perfezione quello che possiamo chiamare l’universo di Silone.
Ci sono delle intuizioni, o forse si tratta di esperienze, che come un fiume carsico percorrono l’intera opera di un autore. Lo scrittore abruzzese ambienta i suoi romanzi in Abruzzo (tranne uno, in Svizzera: “La volpe e le camelie”). E possiamo affermare Silone fa a regola d’arte due cose: osserva, e scrive.
Lo so, non siete caduti dalla sedia dopo aver letto l’ultima frase. Però ci sarà pure un motivo se scrittori come Albert Camus, Heinrich Böll, o Thomas Mann lo ammiravano. Per ottenere dei risultati (diciamo così), è necessario proprio fare quelle due cose: osservare e scrivere.
L’osservazione (attraverso gli occhi, certo, ma non solo), pretende disciplina. Non è sedersi ai margini di un evento, e guardare magari aspettandosi che succeda qualcosa di importante; e dopo scrivere.
Se c’è vita, respiro, uomini e donne, è di certo importante; ma faccio fatica a credere che esista qualcosa che sia superfluo, se vive. Quando si possiede il talento, è possibile prendere quella banale creta chiamata umanità, e renderla arte. Non è da tutti però. Come sa chi frequenta questo bislacco blog, credo che ci voglia un mucchio di talento, e pochi lo possiedono; non dovrei né dirlo né scriverlo, perché magari potrei farmi dei nemici.
Al diavolo.
A volte ho l’impressione che la scrittura di Silone sia troppo semplice. Che più il tempo passa e più sarà difficile accettare quello stile talmente sobrio da risultare persino scarnificato.
Però non è di questo che ci si deve occupare, almeno credo. La sua scrittura riesce a essere semplice eppure profonda. I suoi cafoni non sono parodie, ma carne e sangue. Si ottiene un simile risultato con la pazienza, la riscrittura, la rilettura. L’osservazione, per impadronirsi di ogni dettaglio e sfumatura. Il silenzio e la pazienza.
Queste sono qualità che anche nell’era del Web devono essere riaffermate, e praticate con rigore. Il rischio di essere abbagliati dalla potenza della Rete (perché rovescia i regimi totalitari, eccetera eccetera), rischia di far perdere di vista quello che conta sul serio. Ora, come quindici anni fa, oppure ottanta, quello che fa la differenza non è al di fuori di noi, ma dentro di noi. Siamo noi.
Il resto sono chiacchiere e illusioni.