opera di Swoon
Forse la fine del nostro gruppo cominciò quando comparve Serena. Non so bene come Spud la conobbe, fatto sta che ce la trovammo tra i piedi da un giorno all’altro. Sapeva tutto dei nostri giri, quando c’era da prendere una decisione l’opinione di Spud era in realtà quella di Serena. La cosa non ci turbò più di tanto; prima di lei le opinioni di Spud coincidevano con le mie, qualsiasi esse fossero; non si può dire che Spud avesse una gran spina dorsale, però era un amico, un povero diavolo ma un buon amico. La bottega di artigianato africano, copertura per i nostri frequenti movimenti tra Roma e Rabat, fu un’idea di Serena; però quando quelli della Digos irruppero nel negozio, tutti eccitati come un branco di bambini anfetaminizzati la notte di Natale, ci trovarono solo il povero Spud.
Quella del negozio fu un’idea del cazzo. Il nostro vero centro direzionale, o come direbbe un mediocre cronista, la nostra base, era invece un bilocale in via dei Cessati Spiriti, dalle parti di Arco di Travertino, una strada appartata con poche case, a ridosso di un quartiere popoloso; di giorno ci trovavi tossici, ladruncoli intenti a spartirsi la refurtiva, ragazzini che facevano sega a scuola. Lì avevamo trovato un vecchio che si accontentava di intascare l’affitto in nero senza fare troppe domande. Al bilocale ci incontravamo per parlare di affari, a volte lo usavamo come deposito.
Una volta ero giù in strada con Bradpitt, aspettavamo Spud e Carlito, avevo appena comprato una Lancia Delta, di seconda mano ma tenuta bene; due ragazzine con lo zainetto ci guardavano, erano sedute su un muretto a non fare nulla, dopo un po’ una ci salutò, Bradpitt sorrise, allora la più intraprendente delle due si avvicinò e chiese se avevamo una sigaretta, Bradpitt rispose che aveva il pacchetto pieno, ma su in “ufficio” c’era anche qualcosa di meglio. Salirono con noi, fumammo due canne e andarono via. Sembrava finita lì, ma probabilmente avevamo fatto colpo; le due mocciose cominciarono a presentarsi in ufficio ogni lunedì e giovedì, ci spiegarono che erano i giorni in cui avevano matematica, facevano il quarto anno di liceo linguistico. La più vispa delle due, di cui non ricordo il nome, dopo un mesetto finì a letto, anzi sul divano, con Bradpitt; da allora non si fece più viva, anzi no, tornò dopo qualche tempo chiedendomi di fingermi suo fratello maggiore durante i colloqui scolastici. L’altra invece, Valentina, non rinunciò alla sua libertà clandestina e divenne una habitué del centro direzionale. Noi non ci andavamo ogni giorno, così quel filantropo di Bradpitt pensò bene di darle un doppione della chiave. A me questa situazione non piaceva, eppure non potevo fare a meno di guardare Valentina e invidiarla, invidiare la sua ingenuità, invidiarla per come andava verso il baratro senza paura, ed era un’invidia strana, tanto strana che una mattina mi spinse con lei sul divano, quello stesso divano sul quale si erano già stesi la sua amica e Bradpitt.
All’incirca una settimana dopo tornai in ufficio e la trovai pesta; il padre aveva scoperto che mancava da scuola da mesi, lei era scappata di casa e aveva dormito lì, nel bilocale. I ragazzi non dissero nulla, ma la situazione era chiara a tutti: una minorenne in ufficio, verosimilmente cercata dalla madama, era come una granata senza sicura sulla scrivania, a mo’ di fermacarte. Lasciai trascorrere due notti, poi l’afferrai e la trascinai a casa sua; lei strillava e si disperava neanche la stessi portando al patibolo, e non si fermò neppure quando la madre le saltò addosso piangendo anche lei, ma di gioia.
Quella fu l’ultima volta che la vidi. Però mi scrisse. Molto. Ogni giorno ricevevo minacce di morte e auguri di ogni male in posta prioritaria. Smontai la cassetta delle lettere e il problema fu risolto.