opera di Sam3, 2009, Campofelice di Roccella (Pa)
Ho comprato: una polo a righe orizzontali grigia e blu, un caricabatteria per il cellulare, dei confetti masticabili al guaranà e tre confezioni da due blister di valeriana, un pacco di sfogliatine a base di patate disidratate al gusto barbecue, un settimanale con in allegato il dvd del film “Signore e signori” di Pietro Germi, quattro pacchi di sigarette e un accendino con il logo dell’AS Roma. Mi piace comprare cianfrusaglia in autostrada, anche se tecnicamente non sono ancora in autostrada; tra cento metri c’è il casello per l’A1, direzione sud, quella che va a Napoli, ma io non mi fermo a Napoli, continuo fino all’A14, la Bologna-Taranto; vado a Tiretola, non so perché, forse perché conosco il tragitto, forse perché penso sia il posto ideale per guardare la mia vita dallo specchietto retrovisore, forse, ma in realtà non lo so. Però ci vado.
Appoggio i gomiti sulla schiena della Coupè e mi accendo una sigaretta, la prendo dal pacchetto nuovo, anche se non ho ancora finito quello vecchio.
-Capo vai giù? Mi dai passaggio?
Mi chiede un ragazzino alto e magro. Avrà sedici, diciotto anni al massimo, cerca di abbassare il tono della voce per sembrare più grande, ma così non fa che amplificare il suo inequivocabile accento.
-Sei albanese vero?
Gli dico.
-Cosa ti interessa a te eh? Io chiesto di passaggio…
Mi fa lui.
-Dove vai?
-Puglia.
-Puglia… ritorni in Albania?
-Capo ma cosa ti importa a te eh? Che sei di polizia? Perché se sei di polizia io regolare eh… io lavora… io faccio vedere carta…
-No no lascia perdere, non mi interessa vedere carta… spiegami piuttosto come ci sei arrivato qua, mica sei venuto in autostrada a piedi…
Il ragazzino volta le spalle curve e si allontana, con due passi lo raggiungo e lo afferro per la nuca, non gli do il tempo di reagire e lo spingo verso la macchina.
-Entra in macchina albanese di merda…
Gli dico.
-Va bene ma tu non alza mani ok? E non offende!
Mi risponde.
Gli albanesi mi piacciono. Se ci fosse una borsa valori delle minoranze etniche io comprerei azioni albanesi. Nessuno come loro ha avuto la fama di brutti sporchi e cattivi, nessuno come loro ha esportato tanta malavita. Nessuno come loro, eccetto gli italiani. E come gli italiani in America, i figli dei più disperati diventeranno le menti più influenti della futura Europa. La nostra classe dirigente sarà albanese.
Io non so se questo ragazzino è uno dei cugini buoni o dei cugini cattivi, o se è semplicemente uno che vuole una vita normale, non lo so e non mi interessa. A me serve solo qualcuno che sia seduto su quel cazzo di sedile, mi serve uno che respiri, che si muova, che puzzi, che faccia qualsiasi cosa per distrarmi quando il flusso dei pensieri scivola verso la paranoia. Mi serve una bussola. Ma una bussola che parli poco.
L’ultima volta che sono stato a Tiretola è quando è stata male mia nonna. Mi svegliò alle sette una telefonata: -Ciao Spartaco sono la zia Rita ti ricordi?
-Veramente no.
-Come no, che l’estate venivi sempre a mangiare i fichi a casa mia, che tuo zio Rocco, buonanima, li andava a prendere tutte le mattine al mercato di Taranto… com’è? La zia Rita sono… la cugina di tua madre…
-Ah sì…
Finsi di ricordare.
-Beh vieni a Tiretola che tua nonna ti vuole vedere… non è niente non ti preoccupare, quella la circolazione è, ma sai com’è fatta tua nonna no? E poi è tanto che non vieni giù, se ti vedo per strada manco ti riconosco…
Andai a Tiretola con l’Alfa 145, ci misi tre ore e un quarto: quella macchina beveva un pozzo di petrolio a chilometro, ma mi dava delle gran soddisfazioni. Mia nonna sul letto sembrava una balena arenata, era ingrassata di almeno trenta chili, ma sembrava serena, di sicuro era rincoglionita forte; la zia Rita, anzi la cugina di mia madre, gli strillò nell’orecchio: -Zia ecco Spartaco, hai visto che è venuto?
-Chi?
Rispose lei inebetita.
-Spartaco, tuo nipote…
Provai imbarazzo a pensare che quel catorcio qualche anno prima mi picchiasse.
Rimasi a Tiretola una settimana, non facevo un cazzo tutto il giorno; di mia nonna si occupava zia Rita, però alle venti andava via e lasciava in cucina un piatto di minestrone, che toccava a me imboccare al relitto, e me lo lasciava appositamente perché pensava mi facesse piacere. Ci metteva quaranta minuti a mangiare quel cazzo di minestrone, e dopo recitava il rosario, non so per quante ore. Poi una sera, di venerdì, ingollò senza problemi l’ultimo boccone e mi guardò con occhi stranamente vivi, in mente mi venne il termine lucenza, con cui lei e le vecchie col velo nero indicavano l’apparente ripresa di un malato immediatamente prima di tirare le cuoia.
-Vado nella grazia del Signore, Dio me lo deve; ho avuto una vita di sofferenza, un marito ubriacone, una figlia puttana e… e tu, che sei stato la sofferenza più grande… Dio me lo deve.
Disse.
L’arroganza con cui mia nonna batteva cassa presso il creatore non mi stupì affatto; per mia nonna Dio era una specie di Hitler dei cieli, un dittatore in cui conveniva credere se non si voleva finire male, un sovrano che ti chiedeva un’esistenza di dolore per omaggiarlo; e dopo una vita in trincea, mia nonna pretendeva la sua medaglia al valore.
Il giorno dopo mia nonna fu dichiarata morta.