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Quello non ero io – undicesima puntata

Creato il 03 febbraio 2011 da Olineg

 

Quello non ero io – undicesima puntata

"shared lonelines" di Escif & Sam3

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Ho scolato il mio amaro in due sorsi, senza ghiaccio faceva schifo, ma non l’ho detto, non mi sembrava carino. In macchina pensavo che stasera si scopava facile, invece sono qui che ascolto questo pony pazzo che mi racconta del suo ex, e non ci capisco un cazzo. Ammesso che me ne importasse qualcosa sarebbe praticamente impossibile seguirla; rapita dalla narrazione ignora le più semplici regole della sintassi, non ho nemmeno capito come si chiami il tipo, il fantino intendo. Allora la fisso negli occhi e penso ai cazzi miei, ogni tanto annuisco, è una cosa che mi riesce tremendamente bene, lo facevo anche a scuola: “Signora suo nipote è sempre così attento…”, dicevano i professori a mia nonna. Andavo bene a scuola, però a casa erano comunque botte da orbi. Forse al ristorante ho sbagliato, forse la biondina pensa che sono uno a cui piace parlare, ma a me non piace parlare, preferisco pensare, e ora, in questo momento, voglio pensare a questa storia della chiesa; cerco di passare in rassegna i nostri vecchi clienti. Cerco di capirci qualcosa, anzi, cerco di capire se ci sia qualcosa da capire. Insomma penso, ma mi devo fermare perché la biondina smette di parlare. Così, all’improvviso. Senza nemmeno mettere un punto alla fine dell’ultima frase. E si avvicina, infila una mano tra i miei capelli e sussurra: -Adoro gli uomini che sanno ascoltare.

Ad un certo punto, non so bene quando, ma sicuramente durante il primo tempo della nostra storia come organizzazione a scopo di lucro, capimmo che avremmo dovuto diversificare il nostro portafoglio, guardare a nuove opportunità di business, rivalutare la mission aziendale. E non che avessimo intenzione di fare un salto di qualità nella malavita, non ci siamo mai sentiti dei criminali, eravamo piuttosto dei colletti bianchi, dei giovani professionisti di passaggio, ma ad un certo punto, non so bene quando, ma sicuramente ad un certo punto, ci accorgemmo che l’import-export di fumo, seppur redditizio, ci andava stretto, non ci divertiva più, ci aveva rotto le palle insomma.
L’occasione venne fuori quando un nostro compratore venne a ritirare due chili di marocchino. Chiese se poteva assaggiarlo, si rollò una canna e senza guardarci in faccia ci chiese se poteva ritardare il pagamento; nessuno di noi rispose se non altro perché nessuno di noi era preparato a quel tipo di richiesta, allora il bamboccio scoppiò a piangere come un ragazzina, e disse che aveva perso una fortuna in una bisca in via Tuscolana la sera prima.
La bisca altro non era che due tavolacci verdi nel retro di un negozio gestito da cinesi, uno di quei negozi che vende cianfrusaglia a pochi euro. Come appresi dopo, nella capitale questo tipo di affari è gestito da clan della Cosa Nuova calabrese, ma non mancano bische gestite da albanesi, rumeni e appunto cinesi.
Frequentai quel buco per qualche settimana. Non tutta la clientela aveva gli occhi a mandorla, ai tavoli si affacciavano anche italiani che palesavano il loro razzismo man mano che si sputtanavano la busta paga, e anche una donna il cui aspetto lasciava intuire una convivenza col demone dell’alcol oltre che con quello del gioco, ma a colpirmi fu il gregge di fighette ben vestite, polli ricchi di famiglia, mocciosi che giocavano a fare i dannati coi soldi di papà, all’improvviso mi accorsi che anche il nostro cliente, quello che mi aveva introdotto in quel retrobottega, altri non era che uno di loro: un imbecille che aspettava solo di essere spennato.
Il gioco d’azzardo sarebbe stato dunque il nostro nuovo investimento.
Carlito e Bradpitt mi seguirono nelle incursioni notturne in via Tuscolana; all’inizio spendemmo qualche migliaio di euro a baccarà, poi trovammo il nostro metodo, ma al tavolo più maledetto, quello del poker. Era un sistema decisamente ingenuo, ma finché avevamo a che fare con dei mocciosi tanto ricchi quanto coglioni, andava più che bene; l’importante era sedersi al tavolo tre contro uno, cioè io, Carlito e Bradpitt contro il pollo da spennare. Battevo le sale da biliardo e le bische del prenestino fino a quando non trovavo un imbecille pieno di sé e pieno di coca, ma soprattutto pieno di soldi. Mi avvicinavo e gli chiedevo dove potevo trovare qualcuno che voleva giocare duro, qualcuno che ci sapesse fare con le carte, raccontavo che mi aspettavano per un pokerino ma non volevo che il quarto lo scegliesse il padrone di casa, per non essere messo in mezzo, dicevo insomma che mi serviva un mezzo compare. L’idiozia con cui abboccavano mi sorprendeva sempre. A giocare ci trovavamo all’ufficio in via dei Cessati Spiriti, la tattica era questa: quando le carte le dava Carlito, la prima cosa che facevo era mettere subito da parte le carte che avrei cambiato, come fanno i dilettanti, ma invece degli scarti io mettevo da parte i punti, coppie, tris e doppie coppie, quando Carlito cambiava le carte  raccoglieva il mio scarto, fingeva di metterlo da parte ma in realtà lo sostituiva con le prime carte del mazzo, così quando Bradpitt cambiava le sue, raccoglieva il mio punto. Bradpitt aveva anche inventato un codice per comunicarmi il punto che aveva, fissava pensieroso le sue carte, picchiettava con la falange dell’indice una volta se aveva una coppia, due se era doppia, tre se aveva un tris, quattro se aveva quattro quinti di scala o di colore, e non lo faceva sul tavolo, ma sul dorso di una carta, se bussava al centro il punto era di assi, l’angolo in alto a sinistra era un punto di jack, in alto a destra di donne e via dicendo, se si portava la mano al volto aveva bisogno di una carta di cuori, se giocava nervoso con l’accendino gli serviva un picche. Quando io ero di mano Bradpitt aveva una probabilità esponenziale di vincere, per questo aprivo chiamando buio. Per il resto della partita ci tenevamo bassi, evitando ti stuzzicare la fortuna del pollo, quando lui passava io e Carlito fingevamo di giocare tra noi, e io fingevo di perdere, ogni maledetta mano, dovevo necessariamente perdere più di quanto perdesse il pollo, con questo sistema si evitava che il fesso capisse di essere il fesso. Questa accortezza, che probabilmente mi ha evitato qualche coltellata, la devo al capolavoro di Victor Lustig; Lustig si trasferì un periodo negli Stati Uniti, nel giro della mala lo conoscevano tutti, ma lui riuscì comunque a mettere a segno una perla, e non a spese di uno qualunque, ma di Al Capone. Lustig si presentò da lui dicendo di voler mettere su una truffa che avrebbe fruttato un sacco di soldi, ma aveva bisogno di un capitale iniziale, quindi propose al boss un prestito di cinquanta mila dollari e che gli avrebbe reso il doppio dopo due mesi, Al Capone accettò informando Lustig che se quello fosse stato uno dei sui trucchi, non avrebbe avuto modo di farne altri, in fondo all’oceano. Lustig prese i soldi e li portò in banca, per due mesi non fece assolutamente niente, poi prelevò il deposito e si presentò al boss a capo chino, confessò che la truffa era andata a puttane, però aveva fatto in modo di raccogliere tutti i soldi prestati, fino all’ultimo centesimo, Al Capone prese la valigetta coi soldi, l’aprì e tirò fuori cinque mila dollari che diede a Lustig, come a dire che un uomo d’onore è spietato coi nemici e magnanimo con chi gli è leale.

Continua…

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