Quello non ero io – ventiseiesima puntata

Creato il 28 marzo 2011 da Olineg

opera di Bastardilla

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Mi sono addormentato come i bambini a scuola, seduto e con la testa sul banco. Nel mio caso però il banco è un tavolaccio divorato dai tarli. Mi sono svegliato perché bussano. Sarà qualche parente che non ricordo, avrà visto le luci accese e la macchina parcheggiata.
Chiedo chi è, ma non rispondono.
Mi affaccio alla finestra più vicina alla porta, tra le sbarre vedo un uomo di spalle, e vedo anche che ha qualcosa lungo il fianco, non riesco a vedere al di sotto della cintola, ma dall’impugnatura sembrerebbe una pala. Lui si volta verso di me, con gli occhi trova subito i miei, sono tanto vicino da vedere la dilatazione delle sue pupille. Infila la mano tra le sbarre, all’altezza del mio collo, ma ha calcolato male le distanze. Mi sposto lungo il muro, striscio per due metri, lui non può più vedermi, e nemmeno io.
Se sono abbastanza veloce e fortunato posso uscire dal retro, dal giardino, se sono abbastanza veloce da scavalcare in tempo, e se sono abbastanza fortunato da non trovare nessuno che mi aspetta oltre il muro. E mi devo trascinare l’albanese, altrimenti fa la fine di Samuel. Se solo non avessi buttato la pistola ora avrei una chance in più.
-Scimè vieni fuori… fai l’uomo una volta tanto… non mi costringere a entrare… poi è peggio…
Dice l’animale. Cerco di pensare a qualcosa da dire, per capirci qualcosa, per capire se è solo, per capire cosa vuole. Poi comincia a sbattere la pala contro le sbarre, come un pazzo, come potesse romperle davvero quelle sbarre. Il fracasso fa uscire dalla stanza l’albanese, che rimane fermo, a bocca aperta, come un bambino che vede per la prima volta una donna nuda.
Scatto, afferro l’omero dell’albanese, e corro verso l’orto.
-Forza alzati, ti aiuto a scavalcare.
Ma l’albanese rimane a terra, tremante, come un vecchio buttato giù dalla sedia a rotelle.
-Alzati cazzo! Non l’hai capito che quello ci ammazza?
Me ne accorgo solo ora; sta piangendo. Bofonchia qualcosa, mi pare dica: -Vai.
-Scimè è questo quello che vuoi? Vuoi fare la fine del sorcio? E io te la faccio fare…
Dice il pazzo fuori, subito dopo sento uno scroscio, un liquido versato sul pavimento. Non so se l’odore di benzina che sento sia reale o una suggestione.
-Hai sentito? Cristo ti alzi o no?
Lui si alza, sì, ma solo per schizzarmi la faccia di lacrime, saliva e muco, si alza solo per urlarmi in faccia: -Vai!
E quella mano, quel braccio teso che sembra stia per spezzarsi, non indica il muro, non indica la via di fuga, indica la porta principale, indica la fontana di carburante che presto ci ucciderà. Questo albanese di merda vuole che  vado a farmi ammazzare, perché non ha le palle, perché si sta cacando addosso, e lo pretende, perché è mio il problema, è me che vogliono ammazzare, e lui non ha nessuna intenzione di morire per colpa mia. Questo albanese di merda vuole che io vada a farmi ammazzare. E io ci vado.
Quando apro la porta mi trovo il pazzo davanti, mi ha visto arrivare dalla finestra. Non mi salta addosso, non mi colpisce, fa un passo indietro e sul suo volto appare un sorriso ebete.
-Finalmente Scimè… avevo ragione io; quelli come te bisogna andarli a prendere a casa, ma il nostro amico comune si è fissato… doveva fare una cosa simbolica… la chiesa, i santi bruciati vivi… ma l’importante è che alla fine ti abbiamo trovato, vero Scimè?
-Chi sei?
-Hai ragione Scimè, non mi sono manco presentato: io sono Federico Diana, ti ricorda qualcosa questo nome? È lo stesso di uno zio mio che però lo chiamavano Sentenza, hai presente mio zio? Peccato Scimè, tu gli stavi tanto simpatico a mio zio… a me invece mi chiamano Alex, perché quando giocavo a calcio io ero meglio di Del Piero… e lui…
Si avvita leggermente su un fianco e indica una macchina alle sue spalle, è un gesto copiato agli italo americani dei film di Scorsese, ed è un colpo di teatro che gli viene maledettamente bene.
-Beh lui lo conosci no?
La macchina è una berlina di lusso, nera, in questo momento realizzo che il mio odio verso le Bmw è ricambiato. Lo sportello si apre, viene fuori un uomo, calvo, ha il volto gonfio, senza lineamenti, sembra un volto ricostruito chirurgicamente. Tecnicamente è la prima volta che vedo quella faccia, ma non ci metto molto a capire chi è. Quell’uomo è Michele Lerni. Quell’uomo è Bradpitt.

Io sono un figlio di puttana, nel senso letterale; mia madre era una prostituta. La chiamavano Rosanna la Spampanata, o semplicemente La Spampanata. A diciotto anni scappò da casa; non andò lontano, si fermò a Matera dove cominciò il mestiere. A ventitre anni tornò dalla madre con un pancione di sei mesi, mia nonna non la picchiò per rispetto alla creatura che aveva in grembo. Ebbe modo di rifarsi direttamente sulla creatura svezzata, però. Quando avevo tre anni mia madre fece le valigie e partì per Roma, disse che sarebbe diventata un’attrice, molto probabilmente finì a fare la puttana pure a Roma. Mio padre sarà stato un cliente come tanti, senza volto, tecnicamente sono figlio di una transazione economica. Non è poi così male essere un figlio di puttana, nel senso letterale; se parti dal gradino più basso della dignità sociale è difficile peggiorare il tuo status. E se ci riesci sei giustificato; sei pur sempre un figlio di puttana, nel senso letterale. E nel mio caso non solo letterale.

Continua…

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