Søren Aabye Kierkegaard
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E’ del 1846 il saggio “Una recensione letteraria” di Søren Kierkegaard. Con lungimirante pessimismo, vivezza e ironia descrive lo spirito del suo tempo, segnato dalla vis inertiae nascosta dal copioso fluire di enunciazioni.
Pur se il 2000 differisce dal 1800 in molteplici aspetti, a partire dal modo di comunicare non più contenuto ma spesso ingiurioso, fino alla mobilità che dalla carrozza è passata al jet, il lettore riconosce nella descrizione la sottostante inerzia dell’epoca presente. Internet che, sul nulla fare inserisce un’ulteriore dilatazione del molto dire, ha semplicemente spinto l’emotività collettiva fuori dalle sterili riflessioni ottocentesche verso il parossismo degli slogan lapidari, rapidamente adottati e presto abbandonati.
Il brano che segue è tratto dal terzo capitolo e potrebbe essere stato scritto ieri. Vi si ritrovano la prassi degli annunci cui non seguono effetti e il rito dei summit, la “tuttologia” e le figure alla maniera di Matteo Renzi e perfino di Maurizio Crozza, l’impunità delle leadership e le consolatorie petizioni; la mancanza di fondamento nell’esperienza concreta, l’assenza di laboriosità manuale e la superficialità dell’istruzione. Vi si riconoscono anche la povertà dell’eros e il denaro come oggetto del desiderio, denaro astratto perché declinato al futuro attraverso il ricorso al credito, ma, soprattutto, vi si trova rappresentata la solitudine. Manca l’interiorità scrive Kierkegaard, per conseguenza, non esiste il rapporto e le diversità stanno accanto inerti.
Se al tempo della rivoluzione venivano fornite gratuitamente armi, se al il tempo delle crociate veniva conferito pubblicamente l’emblema dell’impresa, oggi si viene ovunque rifocillati gratis con manuali di istruzione, calcoli di compatibilità ecc. Nell’ipotesi ardita che a un’intera generazione fosse dato il compito diplomatico di ottenere un rinvio – durante il quale fosse continuamente impedito ogni accadimento pur tuttavia sembrasse continuamente accadere qualcosa – non potremmo negare che la nostra epoca sta compiendo un prodigio degno dell’epoca rivoluzionaria. Se uno facesse su di sé l’esperimento di scordare tutto quanto sa dell’epoca propria e della relativa fattualità inflazionata dall’abitudine, poi, come giunto da un pianeta alieno, leggesse un libro qualsiasi, un articolo di giornale o perfino solo parlasse con un passante, avrebbe l’impressione che “caspiterina, stasera stessa succederà qualcosa” o “sarà successo qualcosa l’altra sera!”.
Contrariamente all’epoca rivoluzionaria, che era attiva, la nostra è l’epoca degli avvisi, l’epoca dei comunicati vari: non succede niente, però segue immediatamente un comunicato.
[…] un virtuoso della politica sarebbe capace di scrivere la convocazione di un’assemblea generale per deliberare una rivoluzione in termini talmente cauti che il censore stesso la lascerebbe passare; poi la sera sarebbe capace di suscitare nei membri l’illusione di essere già persino insorti! E tutti si separerebbero soddisfatti dopo una serata estremamente piacevole.
[…] un virtuoso del sapere sarebbe capace di redigere un piano di sottoscrizione, coi lineamenti di un sistema globale, in un modo tale da suscitare nel firmatario l’impressione di averlo effettivamente letto.
[…] L’acquisto di una dottrina solida e vasta sarebbe pressoché impensabile tra i giovani odierni, lo troverebbero ridicolo […] Il tempo degli enciclopedisti è andato, di coloro cioè che scrivevano in-folio con serrata assiduità. Adesso è giunto il turno degli enciclopedisti ad armamento leggero, i quali dispongono en passant dell’esistenza intera e di tutte le scienze.
Il tempo delle azioni grandi e buone è passato. L’attuale e il tempo delle anticipazioni. Nessuno vuole rassegnarsi a compiere qualcosa di preciso, ognuno vuole farsi cullare nel sogno di scoprire almeno un continente nuovo. Il nostro è il tempo dell’anticipo, perfino la ricevuta stacchiamo anticipatamente. Che un uomo consista, o cada, nella propria opera non è più di moda; tutti stanno seduti e campano brillantemente grazie a qualche anticipazione e, quindi, al fatto di conoscere benissimo il da farsi.
L’epoca attuale, con le sue vampate di entusiasmo seguite da un’indolenza apatica, cui va tutt’al più di scherzare, ha molta attinenza al comico. Ma chi comprende il comico vede agevolmente che il comico non sta affatto dove s’immagina l’epoca attuale, perché la satira deve avere a garanzia un’etica coerente e ben fondata, un altruismo disposto al sacrificio, una signorilità innata che sappia rinunciare “all’istante”, altrimenti la medicina diviene incomparabilmente più pericolosa del male. Il comico sta proprio nel fatto che un’epoca simile abbia ancora voglia d’essere spiritosa e grandeggiare nel comico – ma questo è appunto l’ultimo e più abbagliante espediente.
Su cosa può contare infatti un’epoca che vive di riflesso riguardo al comico? Spassionata com’è non fonda il sentimento nell’erotico, non ha fondamenta di entusiasmo e d’interiorità nel politico e nel religioso, non fondamenti nella laboriosità domestica, nella pietà, nell’ammirazione nel quotidiano e nel sociale. Ma un motto di spirito senza fondamenti dileggia l’esistenza, anche se il mucchio ride fragorosamente.
Voler essere spiritosi quando non si possiede la ricchezza dell’interiorità è voler scialare con il superfluo e mancare del necessario, come dice il proverbio, è vendersi i pantaloni per comperare una parrucca.
In un’ epoca senza passione, senza fondamenti, tutto va a cambiali. […] Così che il denaro diviene da ultimo l’oggetto del desiderio. Per di più è simbolico, è astrazione. Oggi persino i giovani non invidierebbero a un altro le doti o la perizia, l’amore o la celebrità, ma gli invidierebbero i soldi.
[•••] La molla dei rapporti sociali, che solo nella passione qualitativamente distintiva sono realmente quello che sono, perde elasticità. La distanza che l’espressione di una qualità produce tra esseri diversi non è più la legge dell’interiorizzarsi reciproco nel rapporto. Manca l’interiorità, e in questo senso non esiste il rapporto, o il rapporto è una coesione inerte. La legge negativa è infatti: non poter fare a meno dell’altro e non poter stare uniti. La positiva è poter fare a meno dell’altro e poter stare uniti. O comunque, positivamente, non poter fare a meno dell’altro a causa dell’unione [n.d.r che ha reale fondamento]. All’atteggiamento interiorizzante ne subentra un altro: il diverso non si rapporta più al suo diverso; stanno lì, come a tenersi d’occhio entrambi, e questa tensione è propriamente la fine del rapporto.