Che fai nella vita? Ho sempre avuto una certa difficoltà a spiegarlo. Innanzitutto perché spesso il concetto di “grafico” era poco diffuso, e poi perché specialmente il grafico editoriale, è una figura pressoché sconosciuta.
"Allora cosa fai di preciso, stampi i giornali?".
"No, veramente mi occupo di disporre in modo armonioso e piacevole testi, fotografie e tutti gli altri elementi che compongono la pagina di una rivista".
"Ah allora scrivi il giornale e lo stampi nella tipografia?".
“...Sì”.
Figuriamoci spiegare di cosa si occupa l’art director, non solo in un’agenzia di pubblicità, ma in ambito editoriale.
“Mi occupo di dare personalità e razionalità all’aspetto esteriore delle riviste e dei giornali; decido quali caratteri vanno usati e in quali dimensioni, quale taglio grafico devono avere le pagine di rubriche, o di attualità oppure d’inchiesta. Valuto quali dovranno essere i colori predominanti, quale taglio devono avere le foto, che importanza dare a box e testi, insomma, è un po’ come fare il sarto: si tratta di confezionare un prodotto sul gusto del cliente, ma che soprattutto sia piacevole e razionale per chi lo dovrà leggere. Proprio come un bel vestito fatto su misura”.
“Ah, allora decidi come devono essere le scritte sul giornale e poi lo stampi?”
“...Sì”.
Ho passato una vita a spiegare il mio lavoro, riuscendo al massimo a strappare la solita battuta: “Hai fatto il liceo artistico? Allore sei un pittore! Senti c’avrei da imbiancare la casa...”.
Col tempo è finita che, quando mi chiedevano che lavoro facessi, quasi mi vergognavo a spiegare qualcosa che spesso non veniva compreso, ritrovandomi col passare degli anni, a essere un art director senza nemmeno accorgemene, tanto che, quando venivo chiamato in quel modo, pensavo addirittura che mi pigliassero per il culo. Forse è un mio difetto, devo ammetterlo, ma sono stato uno dei pochi a potersi fregiare di un titolo e una professione che suscitava spesso le invidie degli amici e dei conoscenti e che, contemporaneamente, quasi se ne vergognava.
“Che lavoro fai?”.
“L’art director... scusa”.
Ecco perché sono così infastidito da chi, spesso, si spaccia per ciò che non è, o meglio, per ciò che vorrebbe essere.
Verso la fine degli anni sessanta c’era uno che, diceva mio padre, girava col carretto di frutta e verdura. Insomma era un venditore ambulante. Quando hanno cominciato a costruire il mio quartiere, questo ambulante si è comprato (non si sa come) un certo numero di box, ha smesso di lavorare, si è messo a dipingere e, nel quartiere, si faceva chiamare "maestro”.
Un po’ come i parrucchieri. Ci avete fatto caso? Sono tutti pittori. Il mio per esempio, si è fatto anche l’insegna: “B. V. il parrucchiere degli artisti”.
Ma ciò che conta, secondo me, è quello che fai per portarti a casa la pagnotta. Sei parrucchiere? E allora non puoi essere artista. Sei un barbiere che, come passatempo, ama dipingere.
Sei un venditore di frutta e verdura ambulante? Allora perché ti fai chiamare "maestro"? I box te li sei comprati coi soldi delle melanzane, non vendendo quadri.
C’è un altro, uno che ho conosciuto attraverso il social network degli ex del liceo. Tutti lo trattano con una certa deferenza. Mi sono informato e ho scoperto che viene considerato un artista piuttosto affermato, ha esposto in varie personali, ha realizzato qualche piccola installazione nei paeselli dell’hinterland milanese (Limbiate), e vanta quotazioni di circa quattro, cinquemila euro per opere di circa cinquanta per settanta centimetri. Sembrerebbe avere tutte le carte in regola per definirsi artista e vivere del suo lavoro. E invece, viene fuori che fa il professore di disegno tecnico in un liceo. Eh no, così non vale. Vuoi fare l’artista? Allora mantieniti facendo l’artista. Troppo comodo guadagnarsi la minestra al calduccio di un impiego statale e poi andare in giro a darsi arie da grande creativo. Sei un professore di liceo che si diletta a dipingere quadri. Stop.