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Questo è un Paese per Nessuno

Creato il 27 febbraio 2014 da Albertocapece

italia-malataAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ogni tanto qualcuno scrive: questo non è un Paese per giovani. Questo non è un Paese per donne. Questo non è un Paese per vecchi. È probabile semplicemente che non sia più un Paese. O  almeno che sia solo un posto dove stanno bene i ricchi, quelli che possono ancora godere di bellezze in via di decomposizione, di diritti ridotti a erogazione benevola e arbitraria, di certezze che si possano comprare come merci di lusso.

E comunque altro che scriteriata e creativa spensieratezza italiana, alimentata da sole, mare, pummarola, canzonette, questo  non è un Paese felice, né tantomeno soddisfatto.

Sai che selva di bandierine occuperebbe la geografia della scontentezza legittima e fisiologica, quella libera e disordinata, quella più o meno organizzata, quella che serpeggia e quella che affiora come un fiume carsico, quella che ci si stupisce che non appicchi incendi, quella che cova silenziosa e astiosa in attesa di identificare un nemico per scendere in una guerra infame come tutte le guerre: omosessuale, straniero, ebreo, donna, barbone.

Intanto contiamo gli “oppressi” a vario titolo, da “riforme”, “tagli”, Equitalia, Banche, quelli che si arrampicano come cavie instancabili su e giù per le scalette nelle gabbie dei prestiti, dei mutui, delle cessioni del quinto, delle tasse variamente denominate. Diciamo che ormai la percentuale, in salsa greca, è di circa il 90%, più o meno consapevole delle fattezze del dominio che si accanisce su di lei, Stato, sistema finanziario, padroni e padroncini, amministrazioni sleali. Di questo 90% fanno parte anche quelli che si sentono repressi nel loro diritto alla critica strangolata dal pensiero unico, quello di un potere fatto di vari gradi di servitori locali di una cupola globale.

E poi ci sono gli indignati, gli Occupy nostrani, poco ascoltati e pochissimo propagandati costretti a salire su torri e Piramidi, nella stupefatta sorpresa di Cuperlo, i senza casa, senza lavoro, senza cassa integrazione ma che protestano contro una globalizzazione che include solo a patto di precarizzare, che accoglie solo in previsione di ricacciare fuori al momento debito.

Che poi ci sono altri come loro, invisibili, che non rientrano più neppure nelle statistiche, quelle dell’Istat e le nostre, che non incontriamo più certi vicini, certi inquilini come noi,  certi clienti del supermercato. Ci sono poi gi antagonisti, quelli più smaliziati, quelli più strutturati, avanguardie di altri malesseri immateriali e non, quelli che identificano tecnostrutture “imperiali”, Tav, Ponti, Torri, Strade, Mose, piramidi inutili magari cominciate e che continuano a divorare risorse, che conviene promettere e non fare per tenersi buoni i signori dei progetti e del cemento. Ci metterei anche i non collaborazionisti, i micro-sabotatori, i corsari informatici, che non hanno grande spazio di manovra in una nazione che i ministri che si susseguono vogliono trasformare in uno smart paese, ma senza banda larga, in modo da estendere sempre di più la massa di esclusi, marginali, vittime.

Ah, c’è anche una èlite: non parlo dei soliti sospetti, le firme in calce, i voluttuosi volontari della minoranza, che si autoalimentano della loro aristocratica diversità. Parlo di chi su fronti solidaristici o laici, in forme più o meno organizzate di resistenza a poteri lobbistici e opachi, lavora magari a livello locale, tramite class action, esperienze di democrazia deliberativa, tentativi di rivendicazione di beni comuni.

Gente come me a vario titolo si sente di appartenere a “questo” altro Paese scontento. E che non è rappresentato in alcun modo da quelle organizzazioni che oggi si contendono la palma della democrazia. E’ più democratico un organismo politico che impone grazie a alte protezioni e medie complicità un premier non eletto, che interpreta in previsione di un amalgama unico interessi di pochi, che persegue una forma di partecipazione che esclude sistematicamente i cittadini dalle scelte, che propone come riforma del lavoro (e bisognerebbe denunciarlo per abuso di ambedue i termini) misure che limitano le libertà sindacali, che annientano le conquiste in previsioni dell’affermazione di quella economia informale, che sconfina nell’illegalità, senza regole, precaria, arbitraria. E che esibisce come un valore l’accondiscendenza ai diktat europei e all’egemonia finanziaria. Un partito che non espelle i dissidenti: non ne ha bisogno dato che impera l’autocensura, nel migliore di casi, l’interesse personale, l’ambizione, l’irriducibile attaccamento a condizioni di privilegio, anche fosse limitato solo a una tribuna pubblica dalla quale esprimere “diversità”.

O è più democratico un movimento che fa del disordine una virtù ma della disciplina ferrea un caposaldo grazie a un interessante ossimoro, lo stesso che, criticando la natura plebiscitaria e populista del “partito padronale” di Berlusconi, rivendica la forma di democrazia partecipativa e diretta tramite qualcosa di altrettanto populista, ma ancora più immateriale, discrezionale e incontrollabile, il Web. Grazie al quale monta processi, guida espulsioni, induce a vergognose abiure. Dubito che Grillo o Casaleggio abbiano letto Simone Weil che nel 1943 preconizzava la benefica fine dalla forma partito e alla sua vocazione totalizzante e illiberale. E altrettanto dubito di qualsiasi lettura di Renzi che non sia Dylan Dog, men che meno quella di Osborne e Gaebler che prefigurano un nuovo paradigma organizzativo, “l’organizzazione catalitica”, una coincidenza di partito e governo che si limita a decidere ma non a eseguire, lasciando il secondo compito all’economia, all’amministrazione, a una classe di tecnici e funzionari che facciano di conto come, lo sottolinea proprio oggi il Simplicissimus,  non sa fare Del Rio.

Siamo sempre più spaesati a casa nostra, chi si è collocato in alto a distanze siderali, accarezza impudentemente gli scolaretti o indirizza cachinni e sberleffi indiscriminati ma è lontanissimo e indifferente. Quanto ormai siamo distanti noi da loro. Tanto che qualcuno spera in salvezze calate dal Partenone. Mentre la via salvifica è quella delle riappropriazione della responsabilità, del riprenderci le decisioni a cominciare dalla liberazione  dalle cravatte europee, di marca, di seta, ma che strangolano come i soliti cappi dei boia e che vanno di moda su vari costumi locali, ungheresi, ucraini, italiani.

 


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