Emilio guarda quel «che uno solo fa», «evento del vuoto» o «fatto pensoso», e si chiede cosa stia accadendo. Nanni Cagnone
Nanni Cagnone su Emilio Villa da qui
Il metodo di Emilio era invece l’esagerazione: come ogni seduttore, doveva sopravvalutare l’oggetto, in modo da invogliarsi. Secondo me, usava questa tecnica, consistente nell’ingrandire il suo interesse, tanto con Marisa Busanel quanto con De Kooning. Il piacere, immagino, è inderivabile (che sia questo, il limite di ogni retorica?), tuttavia può essere ingannato; in ogni caso, una volta ottenuto d’invaghirsi, Emilio si prodigava a rispondere. Per rispondere, non è necessario aver inteso: tornando dallo sguardo con una ragione, basterà restituire all’opera quello che ci ha fatto. «La necessità della pittura è di aver vicino parole che si accostino alla sua poesia»: a che servirebbe, in tal caso, affilare attrezzi? La risposta, intesa come apódosis, come restituzione, viene dopo ma non arriva in ritardo (pensarla diversamente equivarrebbe a dire che entro la complementarità di concavo e convesso si assisterà al ritardo di uno dei due).
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Per lui, l’opera è essenzialmente una promessa, o un oggetto incompleto, ed egli rappresenta, a sua volta, una possibilità permanente di portarla a compimento. Per farlo, indietreggia nello spazio antecedente e assume (anzi attira) una posizione antropologica contagiosa, d’immedesimazione: mimeticamente si fa credente, e cosí diviene parte della possibilità di pensare l’opera, parte di quel che poco fa guardava — ma qui si tratta del «pensiero di colui che fa», e non di quello del lettore.
Per quanto ammirevoli siano gli artisti, il mondo di Emilio è piú grande dei loro: nessuna meraviglia che possa contenerli. È come se l’opera a cui si offre portasse in sé da principio la sua signatura. Ogni volta dentro la sua musica c’è anche questa canzone, ed egli semplicemente la riprende, aggiungendovi una dedica.
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quando mai c’è, per quel che ne sappiamo, una cosa senza di noi? Chi è attore di linguaggio, ma amoroso di figure, deve pur compiere con parole quel che vede, facendolo rinascere dalla sua lingua.
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Perciò si scrivono cose destinate, conseguenze inevitabili. Ci si affida a un’esperienza che elude ogni concetto, lasciando che rendano testimonianza di sé la passione d’incontrare, la fede percettiva, l’errabonda fedeltà. L’opera diviene allora un mondo possibile, un regno senza proporzione, qualcosa che regredisce da attuale a eventuale. L’opera, allora, non è che forma aspettativa, condizione di lontananza, di non-padronanza, estremo struggente dormiveglia.
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Lasciatemi dire un’altra banalità: ogni volta che non ci si sottomette a un ordine (non importa che si tratti di dogmi o di buone maniere corporative), implicitamente lo si oltraggia. E un’inquisizione condotta con il solito acume fornirà le prove che deviare dalla norma equivale a falsificare, a deliberatamente mentire. Sebbene l’arte non sia – parola di Emilio – regolabile («L’arte è la scelta di una persona nel proprio ordine [...] è una sfera di raggio infinito dove si è liberi di essere quello che si è sotto la propria pressione»), si direbbe che non ci siano piú imprese solitarie, ma solo comportamenti antisociali. Perciò chi non si conforma è da biasimare, e a ottantaquattro anni si è ragazzacci per sempre (dunque, nessun editore).