Se potessimo portare con noi, per il viaggio più lungo, un solo istante della nostra vita, quale sceglieremmo? A scapito di chi e di che cosa? E, soprattutto, come riconoscere se stessi in mezzo a tante ombre, tanti spettri, tanti giganti?
Chi siamo noi, in realtà? Quello che siamo stati oppure quello che avremmo voluto essere? Il torto che abbiamo fatto oppure quello che abbiamo subito? Gli appuntamenti che abbiamo mancato oppure gli incontri fortuiti che hanno deviato il corso del nostro destino? Le quinte che ci hanno protetto dalla vanità oppure le luci della ribalta che ci sono servite da roghi?
Siamo tutte queste cose contemporaneamente, siamo tutta la vita che è stata la nostra, con i suoi alti e bassi, le sue prodezze e gli eventi infelici; siamo anche l’insieme dei fantasmi che ci ossessionano… Siamo tanti personaggi in uno, così convincenti nei diversi ruoli che ci è impossibile sapere quale siamo stati davvero, quale siamo diventati, quale ci sopravviverà.[Yasmina Khadra, Quel che il giorno deve alla notte, 2009]
Mi succede ogni volta in cui completo la lettura di un romanzo di Mohamed Moulessehoul, sublime narratore del mondo franco-algerino conosciuto nel panorama letterario con il nome della moglie. I vuoti e i pieni si accavallano all’infinito, rincorrendosi. Alle domande si aggiungono domande. Le risposte non mi soddisfano. La ricerca diventa necessaria e faticosa. Troppo faticosa.
Ritrovare tra le pagine delle sue narrazioni un mondo con cui ho avuto contatti diretti, raccontato dalle due campane – quelle dei “pied noir” e quelle degli “autoctoni” algerini in cerca di libertà – ritrovare le stesse domande che continuano a cercare le stesse risposte mi fa vacillare. E allo stesso tempo consolida quel baricentro conquistato nel tempo. Il baricentro che mi impone di dare pesi diversi alle cose.
È bravo, Yasmina Khadra – Mohamed. È davvero bravo. Supera i confini nei quali il mondo occidentale si trincera inseguendo banali quotidianità, e offre un respiro ampio, allargato, in cui è difficile identificare la linea di demarcazione tra lo yin e lo yang, tra il giorno che si tramuta in notte e la notte che si tramuta in giorno. All’infinito.
“Hai toccato il fondo… adesso non puoi far altro che risalire”, sembra ammonire lo scrittore in ogni romanzo. Il fondo che ci narra è lo stesso in cui sta sprofondando da decenni il mondo occidentale. Quello in cui manca il senso reale delle cose, a partire dall’amore. E dal coraggio di esprimerlo, questo amore, quando si riesce a trovarlo. Quello in cui non esistono autoassoluzioni.
È terapeutico, leggerlo. Appartiene ai pieni.
Poi arrivano i vuoti: quelli della chiusura del libro. Quelli che vorrei non arrivassero mai.
Mi fa bene, Yasmina Khadra. Se non lo conoscete, provatelo. Sono certa che farà bene anche a voi. Dopo un male intenso, struggente. Ma necessario.
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